Sarebbe dovuta stare dall'altra parte. Come madre e come infermiera. La prima crea bambini dal niente, la seconda accudisce la vita, la protegge, fa di tutto per tenerla «di qua». Invece ha sentito, pensato, (...)
(...) programmato la morte. Per sé e per i suoi figli. Si è procurata il farmaco in ospedale, lo ha maneggiato con destrezza, lo ha iniettato nelle vene dei suoi bambini (Vivien, di 9 anni e Nissen, di 7) e poi nelle sue. Potassio, che ferma il cuore. Come per le esecuzioni in America. Si irradia nelle vene e poi si sente il nero, che non è un colore, è una densità. Ha aspettato che i bambini si addormentassero, ha tirato fuori le loro braccia dalle coperte calde e ha cercato quella striatura blu sotto la pelle sottile. Che almeno la morte arrivi nel sonno. Poi ha provveduto a sé. Perché «non ce la faceva più» Marisa, come lasciava scritto mentre colleghi, vicini, amici e persino il sindaco del paese la descrivevano «normale, tranquilla, lucidissima». «Nessuna avvisaglia» dello sconforto che si portava addosso. I bambini in bicicletta nel cortile, in gita in montagna con mamma e papà, sereni e affiatati, «una famiglia modello, mai uno screzio tra Marisa e il marito Osvaldo, agente del corpo forestale della Valle D'Aosta».
E invece Marisa iniziava le giornate già sconfitta ed era da tanto che le veniva un pensiero con la morte dentro. Perché ha pianificato tutto, provveduto a tutto per uccidere i suoi figli e per uccidersi. Si è presa «il tempo». Per riempirlo di intenti, di gesti, di intenzioni e di veleno. E si è presa il tempo di tutti e tre per svuotarlo di ogni cosa. «Non ce la faccio più» le parole su una lettera ritrovata in casa. I bambini distesi nel letto, lei da qualche parte lì vicino. E Osvaldo che rientra poco dopo ed è abituato al silenzio perché quando rincasa la sua famiglia di solito dorme già, ma quel silenzio ha un altro rumore e lui lo sente e poco dopo lo riempie, lo copre a urla «Marisa, Marisa ha ammazzato i figli e si è ammazzata lei». Lo grida ai vicini, a chi accorre senza riuscire a toglierlo da lì, da quella casa bianca con quattro nomi sul citofono. Il suo e altri tre, che ormai non hanno più niente dentro. Quattro targhette appiccicate accanto all'ingresso che adesso sembrano un macabro scherzo. Marisa, Osvaldo, Vivien, Nissen: anche i nomi dei bambini.
Solo quando si è felici si pensa a certe cose, magari la domenica, quando si sta tutti assieme e si gioca, e si disegna e si fanno i biscotti. E allora magari, a un certo punto si decreta che anche i bambini hanno il diritto di avere il proprio nome sul citofono e si preparano le targhette. Ma quello dev'essere stato un altro giorno...Valeria Braghieri
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