Politica

Matteo paga il conto del giustizialismo

Il M5s in affanno torna forcaiolo. Ed è il peggior alleato possibile

Matteo paga il conto del giustizialismo

Un anno fa, pochi giorni dopo l'avvento del governo gialloverde, Claudio Borghi, che insieme ad Armando Siri e ad Alberto Bagnai forma il club degli economisti leghisti, si lasciava andare ad un ragionamento per spiegare lo strano esecutivo che metteva insieme il diavolo e l'acqua santa: «Certo, siamo diversissimi, ma tra l'avere contro i grillini, con le loro manifestazioni di piazza e il loro giustizialismo, o Forza Italia, che non ha l'attitudine all'opposizione, qualsiasi governo sceglierebbe quest'ultima come avversario». Dieci mesi dopo, all'apice dei consensi e nel ruolo di dominus del gioco politico, Matteo Salvini si sta accorgendo a sue spese che quelli che aveva scelto come partner di maggioranza gli si sono rivoltati contro, con tutto l'armamentario di cui sono capaci, e quelli che aveva rinnegato non possono aiutarlo più di tanto. Sono i limiti di chi confonde la tattica con la strategia perché in politica, non va mai dimenticato, non ci sono solo il pragmatismo o la propaganda, ma pure le identità e le storie di ognuno. Questo significa che un 5stelle in difficoltà, che perde nei sondaggi quasi la metà dei voti che aveva conquistato alle politiche, per risorgere si affida al proprio Dna, cioè al giustizialismo, ascoltando il richiamo di quei mondi, da Il Fatto a una certa magistratura, da cui sono stati vezzeggiati e a cui si sono abbeverati al grido di «onestà, onestà».

È un automatismo. Quello di Di Maio è lo stesso istinto dello scorpione di Esopo che punge la rana che cavalca per attraversare il fiume: probabilmente, nelle condizioni in cui è, il vicepremier pentastellato non dovrebbe sparare sull'alleato che potrebbe determinare elezioni anticipate letali in questo momento per il suo partito; eppure, appunto per istinto, non ha potuto fare a meno di chiedere, per risalire la china del consenso, le dimissioni del sottosegretario Siri, oggetto di un avviso di garanzia per corruzione in una vicenda che coinvolge pure un imprenditore in odore di mafia. Cioè ha scelto una strada che, teoricamente, è senza ritorno, perché un simile argomento finisce per delegittimare l'alleato di governo. E, non pago, continua ad agitarlo come tema forte della propria campagna elettorale, se non addirittura come minaccia. Nel Consiglio dei ministri nel quale Salvini ha bloccato il decreto Salva Roma caro a Virginia Raggi, il vicepremier grillino ha rivolto al suo alleato-avversario una battuta quasi intimidatoria: «La tua è una vittoria di Pirro». Poi ai suoi ha spiegato: «Se Siri si dimetterà dal governo sarà un nostro trionfo; se non lo farà, sarà una vicenda che metterà in imbarazzo la Lega per tutta la campagna elettorale».

Così, potrà apparire un paradosso, ma il successo nei sondaggi di Salvini («faremo il 40%», diceva il leader leghista ad un suo consulente) ha fatto tornare Di Maio a tutti gli effetti grillino. Soprattutto, ha messo in luce il peccato originale della scelta del leader leghista nell'alleanza con i pentastellati: gira che ti rigira il 5stelle in ambasce - sia quello di governo, sia quello movimentista - torna giustizialista. E per Salvini è estremamente complicato reagire: un conto è aprire una crisi di governo sulla Tav, un altro per difendere un sottosegretario accusato di corruzione. Specie se nel vocabolario del tuo alleato di governo la parola «garantismo» non esiste. Anzi, è bandita. In queste condizioni al leader leghista in difficoltà non resta che prendere tempo. L'altro giorno, prima di volare a Roma per il Consiglio dei ministri e tornare ad usare le parole forti con Di Maio, Salvini si è lasciato andare con qualche interlocutore a ragionamenti ben più problematici: «Fino alle Europee non faremo niente. Poi si vedrà, ben sapendo che se rompiamo, quelli avranno l'alibi per fare una maggioranza con il Pd, visto che tenteranno di tutto per evitare le urne». Una linea attendista, che serve soprattutto a coprire un vuoto di strategia. Più o meno come è stato anche il braccio di ferro sul «Salva Roma», visto che in Parlamento la posizione della Lega sul no al provvedimento, rischia di essere isolata. «Io non posso dirlo - confidava ad un amico addirittura Matteo Renzi - ma sul Salva Roma ha ragione la Raggi».

Ecco perché il prossimo mese rischia di essere estremamente insidioso per il leader leghista: il successo lo ha fatto diventare il bersaglio grosso. E un meccanismo fatale che hanno provato in un recente passato anche il Cav e Renzi: Salvini ha contro il Pd, i grillini e la magistratura «interventista», quella vicina agli uni e quella simpatizzante per gli altri, e i media di riferimento. Cosa succederà al Senato, ad esempio, quando per chiedere il rinvio a giudizio di Arata, il presunto corruttore di Siri, arriveranno i testi di tutte le intercettazioni? Ed ancora: i magistrati hanno fatto sapere che nelle intercettazioni non c'è nulla di «penalmente rilevante» contro il leader leghista: ma, come si sa, il «penalmente rilevante» è diverso dal «politicamente rilevante». Sono tutte «voci» e «congetture» che risuonano nel mondo grillino, quel mondo che il numero due del Carroccio, Giancarlo Giorgetti, ha accusato di «dossieraggio». «Proprio dieci anni fa - ricorda Gianfranco Rotondi, memoria storica della Seconda Repubblica - Berlusconi raggiunse l'apice di popolarità con il discorso del 25 aprile a Onna e si aprì la caccia grossa contro di lui. Ora è il turno di Salvini. Vogliono il suo scalpo le procure di sinistra, ma anche quelle che riscuotono la simpatia grillina: il Davigo, che si è fatto la sua componente in magistratura, riferimento da sempre di magistrati come Paolo Ielo. Per quei mondi il Matteo leghista è diventato il nemico numero uno, come lo era il Cav. Anzi, ho sentito dire da magistrati di sinistra: Magari tornasse Berlusconi!».

I tempi cambiano, come pure i bersagli. In questa atmosfera anche nel Carroccio c'è chi comincia a porsi qualche domanda. «In Italia - spiega Luca Paolini, il più garantista tra i leghisti - si fa politica con le procure da una vita. Come pure, si sa, che le intercettazioni a strascico servono a collegare parole e fatti che non c'entrano un cavolo. Servono a metterti nel mirino. E questo capita, soprattutto, quando sei in ascesa. Ecco perché se fossi in Siri, mi sarei già dimesso dal governo.

Sarebbe una mossa strategica per togliersi di dosso il ruolo scomodo di preda e, in primis, per salvaguardare il Capo».

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