La Merkel ci ruba i cervelli

Il New York Times incorona la Germania Paese leader dell’import intellettuale

La Merkel ci ruba i cervelli

Niente di grave, per carità. Soprattutto niente di nuovo. Siamo stati emigranti per decenni -in Svizzera, in Francia, in Belgio, in Germania- e forse era scritto nelle stelle che dovessimo tornare a cercarci il pane all’estero. Quello che disturba è che pensavamo di esserci lasciate quelle dolorose stagioni alle spalle. Ci eravamo illusi, a partire dagli anni del «Boom» fino a quelli della «Milano da bere» e oltre, di essere diventati come gli altri: non dico come i tedeschi, ma insomma… È stato un errore, e la crisi galoppante ce lo sta dimostrando. A noi, ai greci, agli spagnoli, ai portoghesi: quei «terroni» di cui la Germania, tornata ad affacciarsi alla ribalta dell’Europa con le mani sui fianchi ha nuovamente bisogno per far marciare le sue fabbriche, per dare nuovo impulso alla sua infernale macchina produttiva, per tenere alto il clangore delle sue officine.

La differenza è che ora, rispetto al passato, non hanno più bisogno di generici, di manovali, di badilanti. Cercano ingegneri, laureati, tecnici specializzati. Col risultato che la distanza fra noi e la Germania -loro a passi da gigante, noi condannati a inseguire, trafelati- si allargherà sempre di più.

Scwabisch Hall, cittadina di 36 mila abitanti nel Baden Wurttemberg, tra Francoforte, Stoccarda e Norimberga, è l’esempio scelto dal New York Times per ambientarci una sua inchiesta sulla «Grande Germania». Bene, in questa cittadina grande come un quarto di Monza, cuore della piccola e media impresa, quella che qui chiamano «Mittelstand», negli ultimi 18 mesi sono arrivati a migliaia. In un colpo solo, a dicembre dell’anno scorso, imbarcati su un aereo come dopo una «retata», sono sbarcati da queste parti 100 ingegneri spagnoli: un week-end di colloqui di lavoro.

È la rapina del secolo. I tedeschi drenano i migliori cervelli del Sud dell’Europa (l’Est ha già dato) e grazie alla preparazione, alle qualità, alla cultura acquisita da migliaia di giovani (laureati) disoccupati, marciano impettiti, a pieni turiboli, trattandoci sempre più come gli (utili) pezzenti del continente. Nell’Heilbronn-Franken, modesta regione del Baden, ci sono 7500 posti che aspettano a tutt’oggi di essere occupati. I settori sono i più vari: dalla Sanità all’Elettronica. Si cercano ingegneri, soprattutto. La lingua non è un problema. Il tedesco di Cristina Fernandez Aparicio-Ruiz, 36 anni, ingegnere madrilena, fa pena. Ma la Ziehl-Abegg, che l’ha assunta, le paga anche un mentore che l’accompagna in farmacia e a far la spesa al supermercato. Anche per David Jimenez, 23 anni, le prime settimane sono state da incubo. «Mi mancavano anche le parole per dire al barbiere come volevo che mi tagliasse i capelli. Poi ho avuto un’illuminazione. Il calcio è una specie di esperanto. Così l’ho guardato negli occhi, mi sono puntato un indice sulla capa e gli ho detto: “Cristiano Ronaldo”. E lui si è illuminato come una lampadina».

Qualche mese fa, quando il sindaco di Schwäbisch Hall, Hermann-Josef Pelgrim, si rivolse ai giornalisti di Spagna, Portogallo, Grecia, Italia, invitandoli a scrivere sulle opportunità di lavoro nella sua cittadina, dal solo Portogallo arrivarono 15 mila curricula. Mentre una quarantina di laureati si presentarono di persona, a bomba, hai visto mai. Certo bisogna abituarsi a un mondo che per un portoghese, o un italiano, all’inizio, è come la luna. Ordine, disciplina, silenzio, due piedi in una scarpa e due palle così, sul posto di lavoro. Ma non si può avere tutto. E però peccato.

«Peccato perchè quelli che se ne vanno sono i migliori -lamenta César Castel, che a Madrid lavora per la Adecco, azienda di cacciatori di teste svizzera-. Per formare un ingegnere la Spagna spende 60 mila euro, e vedere partire questi ragazzi stringe il cuore».

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