Concorso esterno in riciclaggio, depistaggio, falso in scrittura pubblica e privata e calunnia, dovrebbero essere i reati morali e professionali da contestare ai non pochi colleghi e ai tanti politici ed esponenti delle istituzioni che in quella estate del 2010 e nei mesi successivi garantirono a priori sulla moralità di Gianfranco Fini e si scagliarono con violenza contro noi de il Giornale, inventori a loro dire di una macchinazione, la famigerata «macchina del fango», che attentava all'onorabilità dell'allora presidente della Camera su ordine di Silvio Berlusconi. La «casa di Montecarlo» non è solo una truffa di Fini e dei suoi amici mafiosi, come oggi appare in modo incontestabile dalle carte giudiziarie, ma è stata, cosa assai più grave, una gigantesca operazione di occultamento e mistificazione della verità a cui si sono prestati in tanti che oggi fanno finta di nulla. In primis i giornali. La Repubblica schierò il suo primo trombone (parlandone da vivo) Giuseppe D'Avanzo, che garantì su Fini e bollò noi come «assassini politici», che se oggi fosse vivo dovrebbe nascondersi; sul Fatto Quotidiano Travaglio scrisse tra le tante - un'articolessa dissacratoria del nostro lavoro intitolata «Il pistolino fumante» che a noi parve idiota allora ma che riletta oggi risulta invece tragica e dovrebbe portarlo a dimettersi dalla professione per manifesta incapacità.
Non mancarono intellettuali e scrittori, che quando si tratta di sparare a vanvera abbondano. Saviano, sulla «macchina del fango» fece uno dei suoi monologhi moralisti al Festival internazionale di giornalismo di Perugia (sic), bissato in diretta tv dal suo amico Fabio Fazio a «Vieni via con me», che se ha usato la stessa arguzia e faciloneria nel giudicare noi e nello scrivere Gomorra è anche possibile che un giorno si scopra che la camorra non esiste. E poi i politici di ogni genere (ci furono molte incertezze anche nelle file del centrodestra), magistrati compiacenti che in poche settimane scagionarono Fini e istituzioni omertose, a partire dal presidente Napolitano che difese Fini e dopo pochi mesi scoprimmo il perché, con il primo tentativo di disarcionare Berlusconi per mano proprio dell'allora presidente della Camera.
Non furono mesi facili. Fini era diventato una star. Non solo Santoro e compagnia lo elevarono da fascista a statista, ma persino un uomo libero come Enrico Mentana gli concesse la vetrina di un suo TgLa7 senza contraddittorio. Lui era lui, noi eravamo servi, killer, «macchina del fango» appunto. In tv era un inferno. Più che in uno studio televisivo era come salire su un ring, dove conduttori compiacenti davano libertà di menarti a gente come Italo Bocchino e Fabio Granata, gli onorevoli picchiatori di Fini finiti chi in storie di corruzione chi non si sa dove. Tra di loro ce n'era uno particolarmente attivo e viscido: Benedetto Della Vedova, uomo per tutte le stagioni (è passato con disinvoltura dai radicali ai fascisti, da Monti a Renzi) che da buon trasformista è tra i pochi di quella stagione ancora oggi in attività, addirittura sottosegretario del governo Gentiloni.
Nessuno aveva stima di Fini, ma tutti sapevano che si era reso disponibile a tradire Berlusconi e a far cadere il governo di centrodestra. E allora addosso a noi, che svelando il caso di quella maledetta casa (innescato da una intuizione di Livio Caputo, collega di lungo corso al di sopra di ogni sospetto) avevamo senza ancora saperlo messo una zeppa nel diabolico piano. Per fermarci arruolarono, penso a sua insaputa, persino la presidentessa di Confindustria, Emma Marcegaglia, donna capace ma, almeno in quella occasione, un po' isterica. Le fecero credere riferendole una battuta scherzosa - che la «macchina del fango» del Giornale stesse puntando su di lei. Così una mattina all'alba io e il vicedirettore Nicola Porro ci ritrovammo in casa i carabinieri mandati dall'immancabile pm Woodcock: se non ci hanno arrestati c'è mancato un pelo. Gianfranco Fini chiamò subito donna Emma e per esprimerle tutta la sua solidarietà in quanto anche lei vittima de il Giornale e si premurò di farlo sapere. Il sapientone Travaglio subito spiegò in un lungo articolo che la Marcegaglia era stata critica con Berlusconi e per questo il Giornale si apprestava a punirla. Sentenza, la sua, disattesa da quella della magistratura ordinaria, che ci ha poi scagionato senza ombra di dubbio da qualsiasi sospetto.
Sarà un caso, ma in quei giorni subii due intrusioni in casa da parte di ladri che non rubarono nulla. «Servizi segreti», mi suggerì un amico esperto del settore. Fermare il Giornale attraverso la calunnia era diventata una vera ossessione dell'articolato sistema politico-mediatico che aveva trovato il pollo antiberlusconiano e non voleva che nessuno lo spennasse prima del tempo. Cercarono, Fini e soci, di intimidirci con querele a raffica (una, storica, di Bocchino denunciava per stalking tutti i miei colleghi che lo avevano anche solo citato) e richieste di risarcimenti milionari. Ricordo che in quelle settimane Silvio Berlusconi mi disse, scherzando ma non troppo: state facendo un gran casino, il mio governo rischia di cadere più per colpa vostra che per mano di Fini.
Perché ricordiamo tutto questo? Perché di Fini oggi a noi interessa poco. Ha pagato politicamente e pagherà il suo conto con la giustizia. Ha detto, per sviare e minimizzare: «Scusate, sono stato un coglione». Non ci basta per chiudere questa storia di cui siamo stati vittime.
«Sono stato un coglione» lo dovrebbero dire a La Repubblica per conto di D'Avanzo, Travaglio, Saviano, Della Vedova e soci, Napolitano, la Marcegaglia e Woodcock, Santoro e Mentana, e tutti quelli che all'epoca indicarono noi come criminali. Perché i casi sono solo due: o coglione o complice. Terzo non dato.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.