Coronavirus

"Nel loro Paese c'è il Covid". E la toga fa restare il migrante in Italia

Il tribunale di Napoli ha dato la protezione umanitaria a un pakistano perché in patria rischierebbe la salute. E l'Italia ora accoglie chi scappa dal virus

"Nel loro Paese c'è il Covid". E la toga fa restare il migrante in Italia

L'ondata di malati autoctoni ha piegato l'Italia: l'emergenza Coronavirus ha messo alle corde il sistema sanitario nazionale, ma sarebbe andata peggio se avessimo dovuto assistere anche i contagiati stranieri. Ora però c'è un rischio concreto: l'Italia potrebbe diventare un vero e proprio hub in cui accogliere temporaneamente i migranti che fuggono dal Covid-19. E la situazione potrebbe diventare piuttosto grave, visto che in questi giorni si stanno verificando episodi di positività da parte di clandestini che sbarcano nel nostro Paese. E se l'intera Africa non dovesse riuscire a gestire la pandemia? Dovremmo accogliere tutti?

Come riportato dall'edizione odierna de La Verità, il 25 giugno scorso una corte del tribunale di Napoli ha riconosciuto la protezione umanitaria a un pachistano. La motivazione? Perché nella regione del Punjab, da cui proviene, il virus si sta diffondendo in maniera rapida e le strutture sanitarie del posto non sono all'altezza. A emettere la sentenza è stato il collegio presieduto da Marida Corso della tredicesima sezione civile del Tribunale di Napoli. Lo straniero, dopo il rifiuto del riconoscimento della protezione internazionale avvenuto nel 2018, ha fatto ricorso contro la commissione territoriale del Ministero dell'Interno.

La decisione

I giudici, nelle 11 pagine di motivazione del decreto, riconoscono che dagli atti non emerge "alcun credibile e fondato rischio di persecuzione, né il rischio di grave danno". Effettivamente la versione fornita dal ragazzo è apparsa da subito poco attendibile: prima ha raccontato che la sua famiglia è stata costretta a convertirsi allo sciismo dal wahabismo per evitare problemi nel proprio villaggio e che lui avrebbe subito delle minacce dagli wahabiti per poi finire ferito nel corso di una colluttazione; successivamente ha dichiarato che il padre - rimasto affascinato dalla lettura dei testi sacri dello sciismo - si era convertito prima della sua nascita. E per giustificare l'incongruenza delle due versioni ha sostenuto "di non essersi spiegato bene in precedenza". Nel decreto si legge che l'unico episodio di violenza realmente verificatosi "può ritenersi del tutto isolato e privo del connotato della gravità necessario per il riconoscimento dello status di rifugiato".

Tutto qui? Assolutamente no. Improvvisamente arriva il colpo di scena: il collegio decide di valutare "la sussistenza di condizioni di grave vulnerabilità in cui verrebbe a trovarsi il ricorrente in caso di rimpatrio, connesse a situazioni di insicurezza derivanti dalla pandemia di Covid 19 nel Paese d'origine, da bilanciarsi con l'integrazione conseguita in Italia attraverso i numerosi contratti di lavoro susseguitisi negli anni". Allora i magistrati si mettono al lavoro e consultano le fonti internazionali per verificare quale sia la situazione Coronavirus in Pakistan: viene scritto che la situazione ha assunto una "rilevante gravità, cui il sistema sanitario pachistano non appare capace di far fronte". E viene messo in evidenza "un'enorme concentrazione di casi nel Punjab (15.346)".

Perciò, dopo aver esaminato il sistema sanitario pachistano, il collegio è arrivato a una conclusione: "I servizi sanitari per i poveri sono diventati scarsi () i servizi di assistenza primaria sono scadenti, specialmente nelle zone rural".

Pertanto ecco la clamorosa decisione, presa alla luce dell'estensione dell'epidemia di Coronavirus in Pakistan e delle gravi carenze del servizio sanitario pubblico, in particolare nella regione del Punjab: il collegio ritiene che la domanda di protezione umanitaria "possa essere accolta perché il rientro in patria in questo momento porrebbe il ricorrente in condizione di estrema vulnerabilità mentre egli risulta integrato nel territorio nazionale".

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