Una volta c'erano le leggende metropolitane. Qualcuno entrava in un bar e al terzo bicchiere raccontava una storia inverosimile raccattata di seconda mano. La prima reazione era uno scetticismo diffuso. A quel punto il narratore cominciava a giurare e spergiurare che era tutto vero. La prova, in genere, era: me lo ha detto mio cugino. Ah, allora stiamo a posto. È certificata.
Nessuno, tranne grandi scrittori come Gabriel García Márquez o i fedeli della congregazione del complotto lunare, ci credevano veramente. Al massimo facevano finta e magari al prossimo bar e al quarto bicchiere raccontavano a loro volta la storiella. Il risultato era una sorta di romanzo orale che di bocca in bocca si arricchiva di particolari. Così si parlava di giovani autostoppiste fantasma, o del mistero della Volga nera, la limousine usata per rapire le ragazze, o di coccodrilli nelle fogne, insomma storie nere, fantastiche, o ridicole. Tutte bufale sacrosante.
Poi sono arrivati i social network. Le bufale e le leggende sono diventate fake news. Più mirate e più cattive. Il guaio è che adesso molta più gente le prende sul serio. Non è che sono costruite meglio. Non sono più verosimili, ma c'è tanta rabbia in giro che gli uni e gli altri si affannano per gettarsele addosso. Certo, dicono, perché le fake news non sono innocue leggende metropolitane. È diverso. Sono polpette avvelenate utilizzate a fini politici. Questo XXI secolo è avvelenato dal morbo della «post verità», un virus nuovo e senza antidoti. Non è esattamente vero. Il falso è stato sempre usato per favorire o danneggiare qualcuno. Avete mai sentito parlare della donazione di Costantino? Quella che giustificava il potere temporale del Papa? C'è voluto Lorenzo Valla per svelare la bufala. O del processo Dreyfus, con Émile Zola che sputa in faccia all'ipocrita borghesia francese il suo j'accuse? O dei Protocolli dei savi di Sion? Si può andare avanti a lungo, ma non servirebbe a nulla, tanto gli apocalittici della verità tradita risponderebbero che è una questione di numeri. Ora il falso è virale. Forse, ma lo era anche allora ma non faceva notizia.
Pazienza. È inutile combattere contro gli allarmi sociali ripetuti a pappagallo. Ormai le fake news sono un affare di Stato. Il guaio è che in nome della verità si finirà per corrompere ancora di più lo spirito della libertà individuale. E se dite che non è vero è solo per miopia. Non lo vedete. Il ministro Marco Minniti sicuramente è in buona fede, ma la sua idea di istituire il «poliziotto anti fake news» non solo è inutile ma culturalmente pericolosa. Funziona così. Ogni cittadino che pensa di aver scovato una bufala sul web va sul sito del commissariato di polizia e clicca un bottone rosso. Denuncia. Subito si muove la polizia postale e valuta se la notizia è falsa. Nel caso lo sia, impone la censura e parte la denuncia penale per gli autori. Messa così sembra tutto facile, in realtà si rischia davvero il «ministero della Verità» evocato da Orwell in 1984. Il cittadino denuncia, magari per antipatia o odio ideologico, e lo Stato poliziotto si ritrova nella brutta situazione di cartabollare il vero e il falso. Dicono: ma è per difendere il cittadino. Certo, ma ci sono leggi che già puniscono il falso. La storia del nipote raccomandato della Boldrini è falsa. Il reato non si chiama però fake news, ma diffamazione. Non serve scomodare la buoncostume della verità.
Non serve lo Stato censore. Non serve il cittadino con l'indice puntato. Servono leggi chiare, semplici e certe. Tutto il resto è retorica. È il circo dei cacciatori di bufale. È Minniti con i baffi e il cappello di Buffalo Bill.Vittorio Macioce
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