Nuovi posti di lavoro verdi? Sono soltanto un bluff

Nella lista del presunto boom di impieghi ci sono anche autisti di bus, negozianti di bici e netturbini

Nuovi posti di lavoro verdi? Sono soltanto un bluff

Con la solita sensazione di una montagna che partorisce il topoli­no, e con il solito discorso retorico del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon si è aperta ieri a Rio de Janeiro la Conferenza interna­zionale sull’ambiente, detta an­che Rio+20, perché intende cele­brare il Summit sulla Terra che si svolse nella città brasiliana giusto venti anni fa e che diede il via a una serie di politiche globali che trova­no la loro sintesi nel concetto di «sviluppo sostenibile».

Ma rispetto a venti anni fa sono cambiate molte cose: allora a Rio si svolgeva il primo vertice alla pre­senza di capi di stato e di governo di tutto il mondo, crollato il comu­nismo sovietico sembrava che tut­ti i popoli potessero unirsi dietro ai paesi capitalisti in una battaglia che doveva vedere unito l’intero genere umano: salvare il pianeta. In realtà si trattava di una batta­glia guidata da élites socialiste che avevano in odio l’Occidente, ma in quel clima l’iniziativa ebbe fortuna e da Rio uscirono un pro­gramma d’azione (l’Agenda 21), una dichiarazione solenne e tre convenzioni (su clima, biodiversi­tà e lotta alla desertificazione). Og­gi invece la crisi economica mon­di­ale e l’emergere sempre più evi­dente delle radici ideologiche di tanti allarmi sul clima hanno cam­biato lo scenario e i negoziatori presentano ai capi di governo che arrivano a Rio una bozza di docu­mento finale che non soddisfa pra­ticamente nessuno. Eppure una novità importante c’è, perché per la prima volta entra in un docu­mento dell’Onu il concetto di gre­en economy, economia verde, la nuova parola d’ordine scattata nei paesi industrializzati, la scelta che nelle attese di molti è la rispo­sta alla crisi economica. È quello che pensa anche il nostro mini­stro dell’Ambiente Corrado Clini che, nei giorni scorsi, ha parlato di 30mila nuovi posti di lavoro «ver­di », ma è anche ciò su cui ha punta­to il presidente Obama, con cospi­cui investimenti. Ma proprio da­gli Stati Uniti arriva l’evidenza del bluff dei lavori «verdi», che in ge­nere si pensa legato esclusivamen­te al settore delle fonti energeti­che rinnovabili. Alcuni giorni fa un rappresentante dell’ammini­strazione Obama, Josh Galvin, ha dovuto ammettere davanti a una commissione del Congresso che nell’elenco dei lavoratori «verdi» entrano gli autisti di autobus ibri­di e quelli di qualsiasi scuolabus, i venditori di biciclette, i benzinai che vendono Gpl, gli antiquari, i netturbini (che non per niente da noi si chiamano operatori ecologi­ci), i venditori di libri antichi, quanti lavorano alla costruzione di carrozze ferroviarie, i docenti di studi ecologici nei college. Ma incredibilmente nella lista dei la­vori «verdi» c’è anche quello di lobbista delle società petrolifere se impegnato in qualche attività a favore dell’ambiente (si può vede­re il video integrale dell’audizio­ne su web all’indirizzo: http://dai­lycaller. com/2012/06/08/labor­dept- counts-oil-lobbyists-garba ge-men-bus-drivers-as-green­jobs- video/#ixzz1xLHksubx).

Insomma, è l’ennesima truffa che però ci costerà molto cara. Ce lo spiega bene il caso della Spa­gna, il paese che dal 2000 ha inve­stito più di ogni altro nella green economy, a oggi circa 100 miliardi di euro: nel 2009 un team di econo­misti guidati dal professor Ga­briel Calzada ha provato a fare i conti e ha trovato che dal 2000 al 2008 per ogni posto di lavoro «ver­de» creato se ne sono persi 2,2 ne­gli altri settori, a causa del dirotta­mento di investimenti. Ogni lavo­ro nel settore delle energie rinno­vabili è costato ai cittadini tra i 550 e i 600mila euro (oltre un milione di euro nell’industria eolica),sen­za contare che i due terzi di tutti i lavori sono a tempo determinato. Un fallimento colossale a cui il nuovo governo spagnolo di cen­tro- destra sta ora cercando di met­tere riparo.

Ma anche gli Stati Uniti hanno avuto un brusco risveglio con lo «scandalo Solyndra», ovvero la fabbrica californiana di pannelli solari inaugurata nel maggio 2010 dal presidente Obama, che l’ave­va indicata come prototipo del nuovo modello americano, e che ha invece dichiarato bancarotta nel settembre scorso dopo aver di­lapidato i 535 milioni di dollari che l’amministrazione aveva ver­sato per permetterne l’avviamen­to.

Il caso Solyndra peraltro non è isolato, e il Washington Post ha cal­colato che il programma di presti­ti varato dal dipartimento del­l’Energia costa al contribuente 5,5 milioni di dollari per ogni lavo­ro «verde» permanente creato. Al­tro che risposta alla crisi.

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