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Palermo, la Vucciria e le carceri dell'inquisizione

Palazzo Steri Chiaramonte a piazza Marina, oggi sede dell'Università di Palermo, fu un tempo tribunale e carcere dell'inquisizione

Palermo, la Vucciria e le carceri dell'inquisizione

Palazzo Steri di Chiaramonte, costruito all'inizio del 1300 su un edificio arabo, fu la grande dimora di Manfredi di Chiaramonte, esponente di spicco della potente famiglia dei Chiaramonte, conte dell'immenso Feudo di Modica, detto "Regnum in Regno" per i privilegi concessi, proprietario di gran parte delle terre ubicate sulla direttrice per Agrigento, Capitano Giustiziere di Palermo, Ammiraglio del Regno. Il potere della famiglia diede presto fastidio agli spagnoli e nel 1392 il re Martino il Giovane, decise di fermare le ambizioni politiche di Andrea di Chiaramonte, discendente ed erede di Manfredi, decapitandolo davanti al suo palazzo e sequestrandogli ogni bene.

Capolavoro di palazzo Steri Chiaramonte è la Sala Magna o Sala dei Baroni, dove si trova un enorme soffitto ligneo eseguito fra il 1337 e il 1380, realizzato da Cecco di Naro, Simone da Corleone e Pellegrino Darena da Palermo. Secondo gli storici dell'arte, il soffitto si ispira a “quel vastissimo repertorio figurativo che, per i temi moralistici e didascalici, rivela un'immagine fedele della società isolana del Trecento. Fra i tanti temi trattati, i tornei cavallereschi, l'esaltazione della donna e la rivisitazione del passato nel suo momento di massima esaltazione epica e romanzesca: un repertorio d'immagini e di motivi decorativi”. Dal 1600 al 1782 nel palazzo s'insediò il tribunale e il carcere dell'inquisizione. Mentre si restaurava l'edificio, oggi facente parte dell'Università di Palermo, si è scoperto che le pareti delle celle sono ancora completamente ricoperte dalle scritte e dai disegni lasciati dai prigionieri.

I disegni sono stati fatti raschiando le mattonelle del pavimento e mischiando la polvere rossa ottenuta con liquidi corporei o acqua. Celano sempre in modo colto, non sempre comprensibile ai carcerieri, forme di protesta nei confronti della prigionia. In uno di essi, per esempio vi è Cristo che porta la croce, accompagnato da un soldato, che in questo caso non è romano, ma aragonese. I prigionieri erano spesso nobili che non sapevano di cosa erano accusati e perché erano finiti lì. In molti casi non erano eretici, la loro colpa era semplicemente la ricchezza. Questo perché con la condanna il patrimonio degli eretici veniva spartito in tre, una parte andava alla Corona, una all'inquisizione e un'altra al denunciante. Spesso erano proprio i famigliari a denunciare. Lo si è scoperto leggendo le carte che venivano spedite all'archivio di Madrid. Capitava che gli aristocratici arrivassero al processo senza sapere chi li avesse denunciati.

Nell'Archivio Historico Nacional di Madrid si sono trovate anche le storie di alcuni degli autori dei disegni. Per esempio la "relacion de causa" di Francesco Mannarino, che nel carcere ha dipinto una battaglia di Lepanto. Nei documenti si legge: "Fu rapito insieme al padre, i pirati trasportavano le loro vittime fra Algeri, Biserta e Costantinopoli. A Francesco toccò il mercato degli schiavi di Biserta, dove lo comprò un comandante che godeva fama di uomo malvagio. Solo dopo nove anni riuscì a tornare a Palermo ma ormai, in quella città, Francesco era un musulmano. Fu rinchiuso allo Steri”.

Vi sono poi tante scritte in ebraico, testimonianza dell'agonia dell'un tempo fiorentissima comunità israelitica siciliana. Vi sono frasi perfino in inglese, perché qui erano rinchiusi anche gli stranieri protestanti. Il fatto che sapessero scrivere e utilizzassero riferimenti colti fa comprendere che erano persone raffinate, spesso nobili. C'erano anche religiosi che si ribellavano alle ingiustizie del tempo. Si leggono spesso frasi amletiche del tipo: “Un giorno verremo giudicati per i nostri atti”. Accanto alla scritta si vede l'immagine di palazzo Steri Chiaramonte e di un inquisitore con la bilancia della giustizia che però pende dal suo lato. Gli archivi cartacei vennero distrutti con l'arrivo dei Vicerè, ma si sono conservati i rapporti che il tribunale dell'inquisizione mandava ogni mesi a Madrid. Grazie a questo archivio è possibile studiare la storia del carcere. Le torture avevano una cadenza settimanale, prima c'era sempre una visita medica in cui si certificava che la persona era abbastanza cosciente da poter confessare sotto tortura.

Sulle mura vi sono anche scritte in siciliano firmate come “lu meschino”, “lu dimenticato”. Vi è perfino una persona che ha disegnato una cartina della Sicilia molto accurata con la scritta: “Mi scuso per qualche dimenticanza, ma chi vorrà potrà aggiungere le località mancanti”. Un altro ha segnato le date in cui è stato torturato, altri ancora hanno scritto che gli inquisitori con la bocca professano principi giusti, ma con il cuore sono maligni.

Gli inquisitori rimanevano sempre in un anticamera, non entravano nelle celle, sia per motivi di sicurezza, sia per la puzza che vi era internamente. In questo luogo avvennero anche le vicende raccontate da Leonardo Sciascia in “Morte dell'Inquisitore”, il libro sull'eretico di Racalmuto, Fra Diego La Matina, che il 4 aprile 1657 fracassò il cranio al suo torturatore, "l'Illustrissimo signor Don Juan Lopez de Cisneros". Il religioso agostiniano all'età di 22 anni, fu incarcerato per esser “scorridore di campagne” e inizia un iter che lo porterà fuori e dentro le carceri dell'inquisizione per ben 5 volte, con capi di imputazione sempre più gravi: blasfemia, ingiuria, disprezzo delle sacre immagini e dei sacramenti, eresia. Durante un interrogatorio uccise il suo inquisitore, che era imparentato con il Re di Spagna e fu quindi bruciato sul rogo.

Nelle latrine vi erano disegni più liberi, irriverenti e audaci, perché nessuna guardia entrava lì perché troppo sporco. In una, vi è un inquisitore con la testa più grande del corpo seduto su un cavallo che sta defecando. L'autore, che si chiamava Musumeci, ha anche avuto il coraggio di firmarsi. Nonostante la prigionia, la tortura e l'attesa della morte non perdevano l'ironia.

Vi era anche la stanza delle donne. Si riconosce perché i disegni religiosi si riferiscono all'amore per il marito. Molte non sapevano però che erano proprio i mariti a denunciarle, perché il matrimonio con una strega veniva annullato, peraltro lasciando la dote al marito.

Dopo la confessione si veniva portati in processione, dal “Cassero”, attuale corso Vittorio Emanuele, fino alla cattedrale. Lì i prigionieri venivano condannati e gli veniva comunicato come e dove sarebbero stati giustiziati. La morte avveniva o per decapitazione, o per rogo, o annegamento in acqua legati ad un peso. Poi la processione tornava indietro per l'esecuzione, ma non era mai l'inquisizione che si occupava della condanna a morte perché la chiesa non si poteva sporcare le mani. Erano i soldati spagnoli a occuparsi dell'esecuzione. Le processioni raggruppavano più condannati.

Bisognava svuotare le carceri per creare spazio per nuovi prigionieri.

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