Cronache

Parla l'avvocato dell'ex Ss: "I miei 18 anni con Priebke"

Paolo Giachini, l'avvocato che ha ospitato in casa sua l'ex SS condannato all'ergastolo: "Lo aiutavo a fuggire per consentirgli di recarsi in incognito alle Fosse Ardeatine"

Parla l'avvocato dell'ex Ss: "I miei 18 anni con Priebke"

Terzo piano, interno 12. Sopra la porta è murata una formella con la locuzione che Brenno pronunciò dopo aver occupato Roma nel 390 avanti Cristo: «Vae victis». Guai ai vinti. «Se l'era scritta su un cartoncino, ma un poliziotto di guardia la rubò per farne un souvenir, così gliela ordinai in ceramica a Vietri sul Mare», racconta l'avvocato Paolo Giachini. Via Cardinal Sanfelice, strada privata alla periferia della capitale. È qui che abitava il vinto Erich Priebke, l'ex capitano delle SS condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine. Nel palazzo di fronte, risiede tuttora il suo legale, un altro vinto, anche se si considera sconfitto più dalla Cassazione che dalla storia. «Gli avevo messo a disposizione gratis et amore Dei questo alloggio di 100 metri quadrati, che in precedenza occupavo io».

Giachini ha assistito Priebke nelle aule di giustizia e lo ha accudito con attaccamento filiale nei 18 anni di detenzione ai domiciliari. C'era lui al suo capezzale, il 13 ottobre 2013, quando il centenario passò dal sopore alla morte senza un rantolo. «Ho sempre cercato di tenerlo lontano dai medici. Alla fine lo ricoverarono all'ospedale militare del Celio, dove tirò un cazzottone a un infermiere che lo voleva legare al letto. Perciò lo riportai a casa. S'è spento nel sonno mentre lo vegliavo. Era stato autonomo fino a tre mesi prima. Cucinava, faceva il bucato, stirava, lavava i pavimenti. Veniva sempre a trovarlo una compagna che ne ha alleviato la solitudine. Fra loro s'era instaurata una forte intesa. Intendo dire, non si stupisca, che i due sessualizzavano».

Ora Giachini s'è risolto a ristrutturare l'appartamento-sacrario rimasto vuoto. I figli di Priebke, Ingo e Jörg, due anziani pensionati che risiedono rispettivamente a New York e a Bariloche, in Argentina, lo hanno incaricato di curare il nome, le spoglie e gli oggetti personali del padre. Bisogna scendere nelle segrete dei due condominii comunicanti per ritrovare, in cantine che sembrano celle di un carcere, le memorie del defunto ufficiale nazista. Un ventilatore da tavolo, acceso 24 ore su 24, preserva dall'umidità i calendari che riceveva a ogni Natale, stampati dai kamaraden delle SS ancora in vita, e il ritratto in divisa con il berretto nero recante il teschio delle Schutzstaffel.

È attraverso questo dedalo di cunicoli, una variante delle catacombe di San Callisto risalente agli anni del boom edilizio, che Giachini talvolta ha guidato «il capitano» - lo chiama sempre così, quasi mai per cognome - verso un'effimera libertà. «Un paio d'ore. Non potendo assegnare la scorta a un ergastolano, il ministero degli Interni aveva disposto che fosse seguito per motivi di ordine pubblico. Avrà notato in strada i due posti auto riservati alla polizia. Gli agenti sono rimasti lì per quasi un ventennio, giorno e notte. E noi a volte li seminavamo, sgattaiolando via attraverso i sotterranei, a piedi, in auto, in moto». In sella alla sua Bmw 1200, Giachini ha pochi rivali. Adesso l'ha lasciata nel porto di Busan, in Corea del Sud, dov'era giunto di recente dopo un tour de force di 11.000 chilometri: «Me la rimandano via nave». Sempre partendo da Roma, un'altra volta è stato a Kashgar, in Cina; un'altra in Mongolia; un'altra ancora in Namibia e Sudafrica; varie volte a Samarcanda, passando dall'Iran. Con speciali pneumatici da sabbia, in tre mesi ha attraversato tutto il Sahara, partendo dal Marocco, e ha continuato dopo il Sinai fino in Israele.

Il caso Priebke ha stravolto la vita di questo romano di famiglia pesarese, che a 64 anni, compiuti pochi giorni fa, si dichiara «celibe e poligamo» pur avendo una compagna («una delle tante») stabilmente per casa da quando ne aveva 24. Laureato in legge, imprenditore, nel 1975 decide di mollare una fiorente attività di export per assumere la difesa dell'ottantaduenne tedesco rintracciato a Bariloche dalla rete televisiva americana Abc, da tutti additato come «il boia delle Fosse Ardeatine», estradato dall'Argentina in Italia per rispondere della strage che il 24 marzo 1944 costò la vita a 335 ostaggi. Diventa praticante avvocato e apre uno studio legale (nel 2005 sarà iscritto all'albo). Un'occhiata all'albero genealogico aiuta a capire la metamorfosi. Il padre Bruno, generale di divisione morto nel 1977, combatté a El Alamein e fu l'unico italiano che riuscì, dopo varie fughe, a tornare in patria dal campo di concentramento numero 305 di Kassassin, presso i Laghi amari del canale di Suez, dove a partire dal 1944 gli inglesi avevano concentrato i prigionieri più pericolosi. Il nonno Luigi, anche lui generale, fu al fianco di Rodolfo Graziani, viceré d'Etiopia, nella guerra d'Africa; per il coraggio dimostrato, il maresciallo d'Italia gli donò un proprio busto bronzeo, un affresco e una rastrelliera di «armi tolte al nemico», recita la targa d'ottone, tutti cimeli oggi custoditi dal nipote avvocato. Il nonno materno, Gaetano Rossi, fu direttore generale della Gioventù italiana del littorio e venne epurato, come quello paterno, per aver aderito alla Rsi.

Lei ha la passione per le cause perse.

«Ho difeso vari personaggi di estrema destra processati per terrorismo, da Mario Tuti a Pierluigi Concutelli, da Delfo Zorzi a Massimo Morsello. Ma sono andato a trovare anche Adriano Sofri e Silvia Baraldini, quand'erano in carcere».

Come diventò legale di Priebke?

«Nel 1995 mi allenavo con alcuni amici lungo il Tevere. Uno di loro chiese: “Avete sentito di quel Prierche - testuale - estradato in Italia?”. Non ne sapevo nulla, a parte il giudizio di condanna che avevo sempre ascoltato in famiglia circa la strage di via Rasella, giudicata un'azione vile e sconsiderata che determinò la rappresaglia tedesca alle Ardeatine».

E che cosa fece?

«Decisi che dovevo essere io a difenderlo. Come direbbe Piero Buscaroli, vivevo da 50 anni in territorio occupato dal nemico ed era venuto il momento di aiutare chi stava dalla mia stessa parte. Chiesi al tribunale di Roma di poter visitare il detenuto a Forte Boccea. La prima volta il capitano rifiutò. La seconda chiarii che ero mosso da motivi umanitari e allora acconsentì a vedermi».

Come andò l'incontro?

«Non mi strinse la mano. Si sedette davanti a me e mormorò, gelido: “Mi dica”. Impersonava anche fisicamente una SS, è sempre stato quello il suo guaio. Un militare di guardia ci ascoltava. Alla fine puntualizzai: è stato un onore parlare con un soldato tedesco che ha combattuto al fianco dei miei. A quel punto vidi un sopracciglio vibrare. Mi allungò la mano e bisbigliò, passando dal lei al tu: “Vienmi trovare ancora se posibile”».

E lei fece di più: se lo portò a casa.

«Dopo il secondo processo, presentai domanda per gli arresti domiciliari. È stato il detenuto più costoso nella storia repubblicana. Un aereo tutto per lui, con quattro primari medici a bordo, per portarlo dall'Argentina in Italia. Due carabinieri che venivano ogni giorno a casa a controllare che non fosse scappato e a fargli firmare il registro. Tre agenti in borghese che lo prelevavano per l'ora d'aria a Villa Pamphili. Preferiva le poliziotte: se non gli mandavano le sue predilette, non usciva volentieri. Al ritorno si fermava a comprare i fiori per mia madre Serenella. Trascorsi quattro anni, fu costretto a rinunciare a una delle passeggiate in cambio dell'autorizzazione a partecipare alla messa domenicale nella parrocchia di San Leone. La legge stabilisce che, passato un decennio, all'ergastolano siano concessi 45 giorni l'anno di libertà: non li ebbe mai. Gli furono rifiutate persino 24 ore di permesso con un figlio dopo 20 anni di detenzione».

Però ogni tanto beffavate la scorta.

«Sarà accaduto cinque volte. Non mi pareva giusto far sapere quali fossero le sue esigenze. E se voleva andare a donne? E se voleva recarsi alle Ardeatine senza testimoni? Che c'entravano i poliziotti?».

L'ha portato alle Fosse Ardeatine?

«Non ho parlato di visite alle Ardeatine».

Le sarà sfuggito. Ma è registrato.

«Ha capito male, era un esempio».

Ci siete andati o no?

«Non rispondo. Me lo impediscono l'etica personale e il segreto professionale. Quello che posso dirle è che il capitano fu tormentato fino all'ultimo da un'esperienza terrificante, che lo aveva segnato per sempre. Uccidere a sangue freddo... Che ci vuole? Tiri il grilletto. Un attimo. La catastrofe è il resto della vita».

Come le parlò della carneficina?

«Mi descrisse un girone infernale in cui esecutori e morituri s'inabissarono senza urli. Le rivelo un segreto: ne parlò anche con Giovanni Paolo II. In una lettera consegnata a mano a Sua Santità, datata 22 settembre 1997, gli confessò: “I terribili eventi dell'ultimo conflitto mondiale mi hanno visto, come del resto un enorme numero di uomini che a quei tempi vestivano la divisa, eseguire un ordine atroce. Il fatto che si è in guerra non può alleviare il dramma di chi ha una coscienza e deve uccidere. Obbedire era inevitabile, ma fu poi per me una cosa orrenda, una tragedia personale”».

E il Papa che cosa gli rispose?

«Si potrà scrivere che un pontefice da poco proclamato santo s'interessò attivamente affinché fosse concessa la grazia al boia delle Ardeatine e gli inviò la sua “speciale benedizione”? Karol Wojtyla gli fece sapere che come sacerdos gli era vicino, ma che come pontefice non poteva intervenire perché un gesto del genere sarebbe stato strumentalizzato dai nemici della Chiesa. Per due volte il capitano ricevette dal Vaticano l'invito a partecipare alla messa di Natale celebrata dal Papa nella basilica di San Pietro e per due volte gli fu negato il permesso. Del resto la Santa Sede conserva nei suoi archivi le prove che Priebke, in contatto con il superiore generale dei salvatoriani, il tedesco padre Pancrazio Pfeiffer, salvò la vita a molti detenuti nelle carceri di via Tasso, dove aveva sede la Sicherheitspolizei comandata dal tenente colonnello Herbert Kappler».

Obbedire non è inevitabile. I comandi sbagliati si possono rifiutare.

«Un subalterno che riceve un ordine in tempo di guerra è obbligato a obbedire. Sta scritto in tutti i codici militari. Se quell'ordine è criminale, a risponderne è il superiore che l'ha impartito. Per i sottoposti vale l'esimente del pericolo di vita. E la minaccia del capitano Carl Schütz, che diresse il massacro alle Ardeatine ed è morto libero cittadino a Colonia nel 1985, fu chiara: “Chi non vuole sparare, si metta dalla parte degli ostaggi”».

Leonardo Dallasega, altoatesino arruolato nella Wehrmacht, lo fece: nel 1945 fu ucciso dai compagni d'armi insieme con don Domenico Mercante, alla cui fucilazione si era opposto.

«Priebke sparò solo due volte. Se si fosse ribellato, l'avrebbero giustiziato e oggi lo celebreremmo come un eroe. Però l'aver obbedito non fa di lui un assassino. Pensava che quell'ordine fosse mostruoso, ma non illegittimo, essendogli stato impartito per impedire altri attentati come quello che a via Rasella era costato la vita a 33 militari sudtirolesi del battaglione Bozen e a due civili, tra cui un bambino di 12 anni. Le rappresaglie in simili circostanze sono ammesse anche dalla Convenzione dell'Aia. È diritto bellico. Tant'è vero che i due ufficiali superiori e i quattro subalterni processati nel 1948 per l'eccidio delle Ardeatine furono assolti. I giudici condannarono il solo Kappler, colpevole di un eccesso di zelo: interpretando in maniera estensiva l'ordine di 10 fucilati per ogni militare tedesco ammazzato, venuto da Adolf Hitler in persona, di sua iniziativa aveva aggiunto alla lista altri 10 ostaggi, dopo che all'ospedale era morto il 33° soldato del Bozen rimasto ferito nell'esplosione. La corte gli contestò che il numero dei condannati a morte era stato fissato dal comando superiore in 320 e non vi era traccia di un successivo aggiornamento a 330. Altrimenti la scriminante dell'ordine superiore avrebbe scagionato completamente anche Kappler. Con il solo Priebke, e a oltre mezzo secolo dai fatti, la Corte militare d'appello e poi la Cassazione sono andate oltre ogni immaginazione: lo hanno condannato per concorso nell'omicidio volontario di 335 persone, incluse le cinque rastrellate e giustiziate per errore».

Se non ricordo male, Priebke non fu nemmeno imputato assieme ai commilitoni nel processo del 1948.

«Ricorda bene. La sua posizione venne archiviata. È un caso unico nella giurisprudenza moderna: in Argentina tre gradi di giudizio; in Italia due sentenze della Corte costituzionale, una decina di sentenze della Cassazione più numerose altre delle Corti d'appello, del tribunale della libertà, dei tribunali penali ordinari e militari. Una vicenda scandalosa, dal punto di vista del diritto. Con un ministro degli Esteri, Susanna Agnelli, che vola a Buenos Aires per fare pressioni sul governo argentino. Con un presidente, Carlos Menem, che pur di accontentare l'Italia, e in cambio del silenzio sui desaparecidos, aumenta di due membri l'Alta Corte di giustizia in modo da poter estradare Priebke per crimini contro l'umanità. Con un ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, che si piega ai tumulti di piazza e lo fa riarrestare appena assolto in primo grado, accampando la giustificazione di un fax in cui l'Interpol annunciava l'intenzione delle autorità tedesche di procedere a un altro processo in Germania».

Come si spiega tanto odio?

«Ci provi lei. Hanno violato financo il principio fondante della civiltà giuridica, ne bis in idem, in base al quale nessuno può essere giudicato due volte per lo stesso reato. Pur di condannarlo, è stato introdotto un aberrante concetto soggettivo: i sei imputati che furono assolti nel 1948 obbedirono senza coscienza e volontà a un ordine; invece Priebke, siccome era un figlio di puttana, godette nell'uccidere, quindi meritava l'ergastolo perché in lui c'era il dolo omicida. Negli anni è cambiato il punto di vista giuridico, spiegò il presidente della Corte d'appello militare: più ci allontaniamo dagli eventi bellici e più diventiamo punitivi. Il fatto è che nel 1948 la gente ancora lo sapeva che cosa fosse la guerra. Facile parlarne oggi, ben pasciuti, seduti in poltrona al calduccio, come diceva il capitano».

Se Priebke non aveva nulla da temere, perché si nascose in Argentina?

«Ha sempre vissuto alla luce del sole, non si è mai nascosto. Venne addirittura due volte in vacanza in Italia. Nel 1978 a Bressanone incontrò un confratello di don Johann Corradini, il parroco di Vipiteno che lo aveva aiutato a raggiungere il Sudamerica. Nel 1980 visitò Roma, Cassino e Sorrento, soggiornò a Capri, a Venezia e all'hotel Europa di Rapallo, dove a 20 anni aveva lavorato da emigrante».

Quindi non è vero che Sam Donaldson, inviato di Abc, nel 1994 lo scovò.

«Fosse vera la circostanza che Priebke viveva nascosto in Argentina, a scovarlo sarebbe stata semmai l'Intendenza di finanza di Bolzano, che già 25 anni prima gli aveva notificato per lettera a Bariloche di non potergli concedere alcun indennizzo per i danni di guerra da lui denunciati il 3 giugno 1944».

E pensare che ho sempre invidiato a Donaldson quello scoop.

«Ma quale scoop! Priebke era già stato intervistato addirittura nel gennaio 1950 da Ermanno Amicucci, corrispondente da Buenos Aires del settimanale Tempo, mentre serviva ai tavoli in una birreria della capitale argentina. Il processo delle Ardeatine era stato celebrato da appena due anni, eppure non accadde nulla di nulla, segno che non era un criminale ricercato. In quell'articolo il capitano narrava il modo in cui il 23 agosto 1943 fece fuggire Galeazzo Ciano e Edda Mussolini, posti agli arresti domiciliari dal governo Badoglio, portandoli in auto a Ciampino, da dove in aereo raggiunsero Monaco di Baviera. Nel 1978 anche Gerd Heidemann, inviato di Stern, andò a cercare Priebke a Bariloche. Dunque Abc mise in scena una recita, funzionale a tenere acceso quello che Sergio Romano definisce “il sole nero dell'Olocausto”».

Che intende dire?

«Che il mostro doveva essere condannato a prescindere. Una lobby mondiale lo pretendeva. Come crede che si finanzino i centri ebraici che ancora danno la caccia ai criminali di guerra? Tallonano banche come il Credit Suisse, che nel 1998 ha dovuto sborsare 1,25 miliardi di dollari, e aziende. Ne sa qualcosa Ingvar Kamprad, fondatore dell'Ikea, fra i 15 uomini più ricchi del pianeta, costretto a 88 anni a difendersi da accuse pretestuose sul suo passato di filonazista».

Che cosa l'ha spinta a diventare difensore e amico di Priebke?

«Lo stesso senso di solidarietà per cui - a lei posso svelarlo - un galantuomo come Tiziano Terzani, tutt'altro che un nostalgico, si schierò, al pari di Indro Montanelli, Mario Cervi, Guido Ceronetti e Annamaria Ortese, dalla parte del capitano. Restammo in corrispondenza per tre anni. Lo incontrai a Roma. Voleva impegnarsi per la liberazione dell'ergastolano, ma morì prima di poterlo fare. Di ritorno dall'India, in una lettera firmata di suo pugno e intestata “Il contadino Orsigna, prov. Pistoia”, scrisse: “A me che vivo sempre più lontano da questo mondo e dai suoi rumori - ho passato gli ultimi tre mesi in un ashram a studiare il sanscrito e i Veda - il nome Priebke evoca echi di un lontanissimo tempo che - le debbo confessare - non sapevo neppure che continuasse al presente e suscitasse ancora tali e contraddittorie emozioni”. Il fatto è che l'ex cameriere di Berlino, poi divenuto capitano più per motivi contingenti che per la sua preparazione culturale e militare, ha dimostrato di fronte ai trattamenti vessatori, inumani e degradanti che gli sono stati riservati una capacità di resistenza psichica, una forza d'animo, un coraggio e una dignità totalmente assenti nel tipo umano contemporaneo e in particolare nel 99 per cento dell'attuale popolo italiano».

Priebke che tipo umano era?

«Un prussiano dalla testa ai piedi, che ha sempre rifiutato facili ricompense per ipocriti show di pentimento. Il padre morì quando lui era bambino, ucciso dai gas mostarda durante la prima guerra mondiale, nella quale di lì a poco perì anche il fratello maggiore di 17 anni. La madre si spense sei mesi dopo la morte del marito. Tutti i Priebke furono segnati dalla maledizione dei conflitti bellici, a cominciare da quello del 1870 contro la Francia di Napoleone III che coinvolse i suoi nonni. Ancora prima di diventare poliziotto militare, si era riconosciuto nel nazionalsocialismo. “O stavi con Hitler o stavi con i comunisti”, spiegava. Non riusciva a capire perché solo lui, al mondo, dovesse scontare all'età di 100 anni una pena perpetua. “Gli Alleati distrussero Dresda con il fosforo e Hiroshima e Nagasaki con l'atomica. Gli americani bombardano i villaggi afghani, gli israeliani quelli palestinesi. Ma alle Ardeatine non furono uccisi donne e bambini, come invece inevitabilmente accade nei raid aerei”, ragionava».

Però Priebke non chiese mai scusa per la rappresaglia di Roma.

«E lei che ne sa? Incontrò in questa casa i parenti di quattro vittime. Anna Maria Canacci, sorella di un trucidato, nel 2009 avrebbe desiderato partecipare con il capitano alla messa di Natale celebrata dal Papa: il tribunale militare di sorveglianza le negò il permesso. Liliana Gigliozzi, figlia di Romolo, un altro ucciso, volle conoscerlo perché lo riteneva esente da colpe. Lo stesso il nipote di don Pietro Pappagallo. Adriana Lanza Cordero di Montezemolo, che nell'eccidio perse il padre Giuseppe, colonnello del Regio Esercito e capo della resistenza militare monarchica, firmò la petizione a Giorgio Napolitano per la grazia».

Presumo che lei non sia molto simpatico alla comunità israelitica romana.

«L'ha detto. Ma solo alla frangia estremista oggi al potere. Eppure sono stato invitato in Israele dai professori Michael Tagliacozzo e Marek Herman, ho visitato il museo dell'Olocausto dedicato a Yitzhak Katzenelson e ho studiato con loro per due giorni documenti anche su Priebke custoditi nella Casa dei combattenti del Ghetto ad Haifa».

Se la definissi razzista, si offenderebbe?

«No, sarebbe una corbelleria. Gli uomini si valutano per ciò che valgono, non per la loro etnia. L'ho imparato da Ezra Pound, il quale fra uno strozzino ebreo e uno strozzino ariano non vedeva alcuna differenza».

E se le dessi del nazista?

«Preferirei nazionalsocialista, nonostante questa etichetta non rispetti la mia visione del mondo. Sono infatti contrario all'esaltazione della razza biologica e al mito della forza fisica. Mi riconosco nei valori della tradizione che da Socrate alla romanità, fino al feudalesimo e alla cavalleria medievale, hanno ispirato gli aspetti più elevati delle civiltà: coraggio, lealtà, dignità, saggezza, coerenza, senso del dovere e dell'onore, rispetto della parola data, spirito di sacrificio. Mi considero antidemocratico. Ho una visione aristocratica del potere, inteso come forma di comando dei migliori. Ormai non me la prendo nemmeno più con i politici. Coloro che ne sparlano sono gli stessi che li votano e che si comportano in modo uguale a loro».

Quindi non critica nemmeno Matteo Renzi.

«Renzi incarna l'estremo tentativo di riciclarsi con il riformismo compiuto da questo sistema servo delle lobby finanziarie criminali e del materialismo consumista. È un mondo che ha i giorni contati. Qua abbiamo 3,2 milioni di disoccupati e 5,5 milioni di stranieri che vengono da fuori a lavorare al posto loro, mentre gli italiani che non hanno voglia di fare un cazzo si aspettano dal governo la formula magica per continuare a rimanere in cassa integrazione, mangiare, bere, divertirsi, viaggiare, comprarsi l'ultimo modello di telefonino».

Ma lei in che Paese vorrebbe vivere?

«In uno del Terzo mondo. Da giovane arrivai in Ecuador per una spedizione alpinistica. In un paesino i bimbi erano tutti sporchi e giocavano nelle pozzanghere. Non si vedeva neppure un'auto: solo carretti e cacche di cavallo. Fu una liberazione. Respiravo a pieni polmoni, potevo urlare, avevo ritrovato il paradiso perduto, lo stato edenico. Vuol mettere la Roma di oggi? La Ztl, il traffico, i vigili, i gas di scarico, di qui non puoi passare, là non devi parcheggiare...».

Quindi traslocherà in Ecuador.

«Il Paese migliore in cui vivere resta l'Italia. A patto di poter disporre di sei mesi l'anno per andarsene altrove».

Conosce il luogo segreto dov'è stato seppellito Priebke?

«Sì. Ogni volta devo chiedere un permesso per poterlo visitare. È una tomba senza nome. Solo una croce, ma con alcuni segni identificativi. Per ora non ne rivelo l'ubicazione, anche se sarei a tutti gli effetti libero dall'impegno di riserbo preso con il prefetto di Roma, a cui avevo dato la mia parola. È un piccolo cimitero custodito dal ministero degli Interni, un luogo meraviglioso e romantico, curato con amore da due rappresentanti delle istituzioni che hanno molto stimato il capitano. Là sta benissimo».

Lui dove voleva essere sepolto?

«A Bariloche. S'era comprato un terreno per sé e per la moglie. Invece Alicia, con la quale è stato sposato per 66 anni, vi giace da sola, uccisa dallo shock susseguente alla deportazione in Italia del suo Erich e dal dolore per non averlo più potuto riabbracciare. Separati in eterno. Le autorità italiane, dopo essersi impossessate della salma del capitano, l'avrebbero cremata volentieri. Mi sono opposto, dicendo: se non volete concedergli il funerale, non riuscirete nemmeno a ridurlo in cenere. Ho denunciato tutti coloro che hanno preso a calci il carro funebre e il sindaco Ignazio Marino per interruzione di pubblico servizio. Attendo ancora giustizia».

Sia sincero: lei pensa che Priebke riposi in pace?

«Sì. A padre Peter Van Heijl, un missionario salvatoriano che venne a benedirlo nel giorno del suo 100° compleanno e poi andò a curare i malati di Ebola in Africa, il capitano confessò: “Fede e amore vincono su tutto, anche sugli errori e sui peccati. Mi sento in pace”. Ho capito che il male del mondo non abita soltanto nella casa che la propaganda gli ha assegnato. Io una delle SS più crudeli e malvagie l'ho avuta accanto per quasi 20 anni e posso assicurarle che era una persona squisita».

(728. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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