Cronache

Perché la Cina è ancora un Paese comunista

S i fa un gran parlare in questi giorni di Via della seta, di Dragone e di Grandi timonieri. Termini esotici e accattivanti, che ammantano di orientale mistero il serissimo tema di un possibile nuovo rapporto - forse solo commerciale, ma forse no - tra il nostro Paese e la Cina di Xi Jinping. Nel mondo italiano della politica e della comunicazione c'è chi rassicura garantendo che da Pechino non c'è nulla da temere, chi approva giulivo, in base a un'aggiornata versione dell'eterno «o Franza o Spagna purché se magna», e chi disapprova mettendo in guardia dai disegni geopolitici di un'ex potenza regionale che agisce ormai da superpotenza mondiale. Questi tre atteggiamenti hanno in comune un punto: la consapevolezza che esistono ragioni concrete per considerare la Cina un partner poco rassicurante. I motivi di questa diffidenza essenzialmente si riducono a uno, di carattere (...)

(...) politico: la Repubblica popolare cinese non è una democrazia, bensì l'ultima (e gigantesca) ridotta del comunismo mondiale. Una realtà che merita di essere ricordata sia pure in sintesi.

La Cina di oggi è l'erede diretta del regime fondato settant'anni fa dal leggendario leader comunista Mao Zedong, vincitore della guerra civile contro il nazionalista filo occidentale Chang Kai Shek, i cui eredi sono ancora oggi asserragliati nell'isola-Stato di Taiwan, un esempio di prospera democrazia liberale che l'attuale presidente cinese Xi non fa mistero di volere «ricondurre alla madrepatria» entro il 2050, con le buone o con le cattive. In Italia, per via del conformismo marxista dei nostri intellettuali, non si è mai parlato abbastanza dei fiumi di sangue che Mao fece scorrere per tingere la Cina del rosso della sua bandiera. Mao compì stragi spaventose guardando lontano: sterminando l'opposizione interna si sarebbe impedito ogni ritorno al passato. La Cina di oggi viene da lì, si è in parte convertita al capitalismo per interesse ma non ammette il libero pensiero. Né deve rassicurare il fatto che il Grande timoniere - come Mao amava essere chiamato e come i seguaci di Xi sempre più spesso chiamano lui - non ambisse all'egemonia mondiale: egli insegnava infatti a consolidare il regime in patria per renderlo capace nel futuro di spartirsi il mondo in aree d'influenza politica ed economica con gli altri Grandi, senza disdegnare di usare all'estero la brutalità esibita in patria.

Quel futuro è arrivato. È oggi, è qui. La Via della seta altro non è che uno degli strumenti concepiti a Pechino per rafforzare il proprio ruolo nel mondo. La Cina rossa veste in giacca e cravatta e stende ovunque i suoi tentacoli proponendo partnership ineguali a Paesi più deboli, per poi attirarli nella propria orbita; trasforma i propri debitori in clienti asserviti; approfitta della propria forza per imporre a partner occidentali regole liberticide di propria convenienza: è il caso dei colossi dell'informatica che si prestano a realizzare per il mercato cinese versioni dei propri prodotti predisposte alla censura di Stato del Grande Fratello. Una (relativa) libertà commerciale convive in Cina con la negazione assoluta delle libertà politiche e individuali.

Attenzione, dunque, ai sorrisi del Dragone, e mai dimenticarsi dei suoi poderosi artigli: Xi non esporta solo merci.

Roberto Fabbri

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