Fatta a immagine e somiglianza di Bernardo Caprotti, Esselunga appartiene solo a Bernardo Caprotti. Il quale ne è il dominus e «della stessa può disporre nel rispetto delle leggi che governano il Paese». Piuttosto improbabile che qualsiasi persona di buonsenso arrivasse a una conclusione contraria. E infatti così ha sancito il collegio arbitrale composto da tre luminari del diritto - Ugo Carnevali, Pietro Trimarchi e Natalino Irti-nell’annosa contesa che vede i figli maggiori del fondatore, Giuseppe e Violetta, opposti al padre in una battaglia giudiziaria senza esclusione di colpi per il controllo della catena di supermercati che fattura 6,6 miliardi di euro l’anno.
La legge universale che governa le imprese di famiglia italiane, pur con qualche eccezione, è inesorabile: la prima generazione costruisce e consolida, la seconda mantiene e sviluppa, la terza dissipa e distrugge. La legge specifica che governa Esselunga è che la terza generazione, se vuole ereditare l’azienda, deve meritarsela. Non esiste, nella concezione pragmatica dell’uomo che l’ha creata, la successione per diritto dinastico. Subentra solo chi ha i titoli per subentrare.
Della Manifattura Caprotti, che per oltre 150 anni ha filato il cotone fra Monza e il lago di Como, Bernardo Caprotti è stato degno erede prima in fabbrica, poi come montatore meccanico di telai fra Texas, Maine e Massachusetts, quindi nella tessitura di Macherio, dove dovette subentrare nel comando al padre morto all’improvviso, fino ad allargare il business alla grande distribuzione, in società (ma solo all’inizio) con Nelson Rockefeller.
Caprotti ci aveva provato a mettere la sua Esselunga nelle mani della terza generazione. Lo fece 10 anni fa, quando ne erano già trascorsi 45 da quel novembre del 1957 che videl’apertura a Milano, in viale Regina Giovanna, del primo punto vendita della Supermarkets Italiani Spa, anzi del primo supermercato italiano in assoluto. Nel giro di 24 mesi s’accorse d’essersi sbagliato: la terza generazione stava dissipando e distruggendo.
Nel 2002 il timone passò dunque da Caprotti senior, classe 1925, al figlio Giuseppe, classe 1960, già da due anni vicepresidente, che assunse il ruolo di amministratore delegato. Ma ben presto si mise di mezzo un polish per metalli preziosi, come racconta il magnate nel best seller Falce e carrello ( Marsilio), che ho avuto il privilegio di veder nascere pagina dopo pagina: «Avevamo sugli scaffali l’Argentil a oltre 5 euro, il 30% in più rispetto a tutti i concorrenti, anche i più scassati,che l’avevano a 4. Eravamo diventati l’azienda più cara del Paese, onusta di costi, consulenti, riunioni. Una pacchia per la concorrenza, alla quale avevamo lasciato uno spazio enorme».Oggi il lucidante per argenti all’Esselunga si vende, nella versione spray, a 8,19 euro, il che dà la misura dell’aumento del costo della vita. Ma è lo stesso Argentil che al Prontospesa Crai viene 9,89 euro e all’Auchan 9,49, il che chiarisce perché Esselunga vanti il più alto volume di vendite per metro quadrato nell’area dell’euro.
Fu nel 2003 che Caprotti, allarmato da troppi segnali provenienti da fornitori, amici e clienti, dovette amaramente constatare come la gestione aziendale assecondata dal figlio stesse precipitando Esselunga nel baratro. Peggio: come la stesse portando dritta nelle fauci dell’odiata Legacoop, pronta a fagocitarla col pretesto di non farla cadere in mani straniere, sbarazzandosi così del più temuto avversario. Ovviamente le voci su una possibile cessione del gioiello italiano a qualche catena internazionale venivano fatte circolare ad arte. Ma raggiunsero l’effetto desiderato.Tant’è che Romano Prodi, in piena campagna elettorale, un sera arrivò al punto d’annunciare a Porta a porta che l’obbligo morale del governo a venire, qualunque esso fosse, era quello di «mettere insieme» - disse proprio così - Esselunga e Coop, cioè amalgamare acqua e olio: impossibile, come si legge nel Padrino di Mario Puzo. Forse spiega qualcosa il fatto che oggi, secondo la classifica di Altroconsumo, l’Esselunga di via Guelfa sia in assoluto il supermercato più conveniente di tutta Bologna, davanti agli ipermercati Leclerc Conad di via Larga e Ipercoop di via della Beverara; meno cara di un 7% della Coop di viale Tito Carnacini e addirittura di un 17% del Conad di viale Antonio Silvani.
La spoliazione stava avvenendo d’estate, mentre il patriarca era stato atterrato da una terribile malattia. Quando a ottobre si rimise a fatica in piedi e tornò nel suo quartier generale, a Limito di Pioltello, sembrava un ectoplasma. Quello che scoperchiò ponendo mano alle miserie contabili ebbe sul suo morale un effetto ancora più devastante della subdola patologia con cui si trovava a fare i conti. Scoprì l’esistenza di un oscuro giornalista pubblicista di origini siciliane, consulente in Esselunga da ben cinque anni, che aveva mandato a gambe all’aria la rete di vendita. Scoprì che un noto ricercatore di mercato, incaricato di un’indagine «motivazionale», era riuscito a farsi pagare profumatamente per esporre la teoria copernicana secondo cui i consumatori si dividono fra «supermarkettisti », che badano alla qualità e trascurano i prezzi, e «ipermarkettisti », per i quali invece il prezzo è tutto, e la clientela di Esselunga sarebbe in prevalenza costituita da «supermarkettisti», cosicché da quel momento ai piani alti nessuno s’era più preso la briga di monitorare la concorrenza. Scoprì direttori marketing che con l’ ecommerce erano riusciti a perdere 60 miliardi di lire l’anno.Scoprì che il responsabile amministrativo aveva sottoscritto «contratti derivativi » per altri 60 miliardi.
Su quest’ultimo argomento ebbi una cortese disputa linguistica con Caprotti durante la revisione del suo libro.Siccome a quell’epoca manco capivo bene di che roba si trattasse, mi permisi di osservare che sarebbe stato preferibile scrivere «derivati», come facevano i giornali. Mi rispose con una lettera garbata, una delle tante che ci scambiammo in quel periodo: «Che problema questa semantica. Il 50% delle parole inglesi vengono dal latino, talvolta vogliono dire una cosa diversa. Comunque “ derivativi” è parola che viene dall’inglese “derivatives”, non dal latino. Così sono chiamati nei loro contratti. Sono una tremenda invenzione nata tra Londra e New York che se scoppia, scoppia tutto il mondo occidentale ». E chi lo manda in pensione un profeta di questo calibro, capace d’intuire con anni d’anticipo la crisi sistemica planetaria in cui stiamo annaspando?
Un’altra disputa, più zoologica che semantica, riguardò il sostantivo «ratto», che Caprotti aveva usato nel suo manoscritto per qualificare un dirigente incaricato della gestione di tutti i prodotti deperibili. Alla fine lo convinsi a ripiegare sul meno brutale «serpe» nel riferirsi a questa persona cui era stato dato potere di vita e di morte per accantonare, spintonare, scacciare dipendenti validissimi, «talché ai vertici di settori nevralgici l’azienda si ritrovava con individui di alta incompetenza ».
In Falce e carrello è narrato il modo in cui l’anziano tycoon si risolse a liberarsi di questo «ciarpame manageriale »: «I primi li caricammo, in una bella mattina del gennaio 2004, su delle Mercedes blu, con autista, una per ciascuno. Una cosa dignitosa. Anzi, di riguardo. Gli altri uscirono alla spicciolata e solo dopo, dalla documentazione rimasta, ebbimo la conferma e le prove di chi fossero alcuni di loro. Con uno sforzo enorme ricostruimmo l’azienda. Alcuni quarantenni, trentenni, tornarono. Altri furono promossi. Poi - fu solo fortuna? - nuove validissime figure entrarono a far parte della squadra. Oggi è una squadra eccezionale ».
È questa la squadra che Bernardo Caprotti continua ad allenare tutti i giorni. Non gli restano davanti molte stagioni agonistiche. Ma, per quel poco o quel tanto che l’ho conosciuto, credo d’aver capito che deciderà lui, e solo lui, quando e come smettere di giocare. Per prenderne il posto non vale appellarsi al diritto del sangue.
Una cosa è certa: non saranno i giudici a esonerarlo. Al massimo può riuscirci solo la vita.
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