È finita un'epoca. Davvero. Non è una frase fatta perché Silvio Berlusconi è uno dei pochi uomini, davvero rari, che hanno caratterizzato un intero periodo storico nella vita di un Paese. L'Italia degli ultimi trent'anni ha vissuto sulla figura del Cavaliere. È lui il filo conduttore di una narrazione che attraversa tre decenni. È un dato che nessuno può smentire o nascondere: né amici, né avversari, né fan, né detrattori. Non puoi parlare dell'Italia a cavallo tra il secondo e il terzo millennio senza parlare di lui. E ancora oggi ne era il punto di equilibrio politico e non solo. Per questo è complesso immaginare un'Italia senza il Cavaliere e per lo stesso motivo è difficile credere che la sua assenza non determini dei cambiamenti. Già solo questa constatazione dimostra che, come il Paese ha dato molto a Berlusconi, anche Berlusconi ha dato molto al Paese.
È una verità che dovranno riconoscere tutti in sede storica, lontano dalle polemiche che alimentano l'agone politico. Anche perché è difficile nel vissuto di un solo uomo trovare il grande imprenditore, il grande uomo di sport, il grande uomo politico. Tre primati che hanno un tratto comune: lo spirito indomito, l'ardire di lanciare il cuore sempre e comunque oltre l'ostacolo, l'ottimismo di pensare una frase che ripeteva spesso che da un male può sempre venire un bene.
Ne era convinto anche all'inizio del calvario che lo ha portato via in due mesi, quando parlando della sua malattia mi disse con tono determinato al telefono: «Ce la farò anche questa volta». E ne era sicuro anche due settimane fa, quando andai a trovarlo ad Arcore. In un momento in cui eravamo rimasti soli, gli chiesi se in queste settimane avesse mai avuto paura e lui che ha sempre avuto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome ammise: «Due volte, quando ho avuto la bruttissima sensazione di non respirare». Una confessione forse figlia di un presentimento, oppure la consapevolezza che questa volta l'impresa era ardua ma la battaglia andava combattuta fino alla fine. Per una ragione più profonda di quanto possa apparire.
Berlusconi non ha mai avuto timore della morte, ma sentiva dentro il bisogno di dare un ricordo vero di se stesso all'Italia, al di là degli odi e dei rancori che partorisce un Paese sempre diviso in guelfi e ghibellini, in comunisti e fascisti, in berlusconiani e anti-berlusconiani. È questo il vero cruccio con cui ha convissuto in quest'ultima parte della sua vita: essere ricordato per quello che era realmente e non per come i suoi avversari lo hanno dipinto per anni, massacrandone l'immagine per fini di parte. Ricordo come se fosse ora una telefonata che mi fece all'una di notte lo scorso 23 aprile. Era ricoverato al San Raffaele, ma mi chiamò per farmi una confidenza, per lasciarsi andare ad uno sfogo che gli sgorgava dall'anima: «Io voglio vivere perché non posso lasciare di me l'immagine deturpata e falsa che mi hanno appiccicato addosso i miei avversari, quelli che mi odiano. Io sono un imprenditore che ha costruito città, un presidente del Milan che ha vinto tutto. Come politico ho evitato che l'Italia finisse nelle mani di una sinistra che non era quella di oggi ma quella dei comunisti, come uomo di governo ho tentato in tutti i modi di modernizzare il Paese. Eppure sono stato oggetto di una persecuzione durata una vita, dal punto di vista giudiziario e non solo. Voglio ristabilire la verità. Lo devo ai miei cinque figli e agli italiani».
Ristabilire la verità, appunto, ma non solo per se stesso, ma anche per pacificare un Paese che per trent'anni si è inventato uno scontro ideologico tra berlusconiani e anti-berlusconiani. Un assurdo per un personaggio che ha sempre avuto l'ambizione di essere un pacificatore, che sul moderatismo e su una visione liberale e cristiana del Paese ha fondato un partito. Basterebbe un minimo di onestà intellettuale per riconoscerlo.
E in fondo a guardare i giudizi espressi in Italia e a livello internazionale, i riconoscimenti ricevuti dalla politica e dai leader di tutto il mondo, si può dire che Berlusconi ha vinto anche la sua ultima battaglia: quella di salvaguardare la sua memoria e di veder riconosciuto da amici e avversari (a parte quelli che lo hanno trasformato nella loro fobia) il posto che gli spetta nella Storia.
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