La buona notizia è che Giuseppe Conte evita finalmente i toni accomodanti e accondiscendenti delle sue ultime esternazioni pubbliche e dice chiaro e tondo - senza cedere alla tentazione di dover per forza tranquillizzare i suoi interlocutori, come vorrebbero i sondaggi - che «siamo davanti ad una crisi senza precedenti», una «prova durissima per il Paese», che stiamo affrontando «giorni terribili» perché «combattiamo un nemico invisibile, insidioso e che divide le famiglie», un nemico che «ci fa sospettare anche delle mani amiche». La cattiva notizia, invece, è che il premier sceglie consapevolmente di tenere a distanza le opposizioni, nonostante l'incontro di lunedì scorso a Palazzo Chigi con Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani. E nonostante il Quirinale si sia raccomandato con forza di coinvolgere Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia nella stesura dei prossimi provvedimenti. Una strategia, quella di Conte, evidentemente ragionata. Ma che rischia in prospettiva di complicare il quadro generale. Stiamo attraversando un'emergenza come mai era accaduto dal dopoguerra ad oggi ed è evidente che il modo migliore per affrontarla sarebbe un Parlamento unito e determinato su un comune obiettivo. Si sta andando, invece, nella direzione opposta. Quella della lacerazione e delle divisioni che, inutile dirlo, per ora restano sotto il tappeto ma rischiano di esplodere alla prima occasione.
Tutte considerazioni che il presidente del Consiglio deve aver valutato prima di presentarsi alla Camera per l'informativa urgente sul coronavirus e decidere di non fare nemmeno un accenno alle opposizioni in quasi un'ora d'intervento. Il premier si limita a dire d'essere «consapevole» della necessità di coinvolgere il Parlamento che «esprime al massimo grado la democraticità del nostro ordinamento». Ecco perché, aggiunge, ogni atto di Palazzo Chigi sarà «trasmesso ai presidenti delle Camere» e il governo «riferirà ogni 15 giorni in Parlamento le misure adottate». Non va oltre Conte. Ed è di tutta evidenza che si limita a concedere il minimo indispensabile: viste le misure eccezionali di limitazione delle libertà personali che il governo ha dovuto giustamente prendere in queste settimane di emergenza sanitaria, non prevedere un controllo parlamentare sarebbe stato assolutamente impensabile.
D'altra parte, non è un mistero che il premier non si fidi granché delle opposizioni. In particolare del leader della Lega, con cui ormai il rapporto è così deteriorato che definirlo irrecuperabile sarebbe un eufemismo. E forse non è un caso che, proprio in apertura del suo intervento alla Camera, Conte ci tenga a ribadire che non è questo il momento delle critiche. «La storia ci giudicherà, tutti avranno la possibilità di sindacare», dice il capo del governo citando Manzoni (del senno del poi son piene le fosse). E in molti hanno l'impressione che la sua sia anche una risposta a chi ipotizza la nascita di un esecutivo d'emergenza nazionale guidato da Mario Draghi. «Ci sarà un tempo per tutto, ma ora è il tempo per l'azione e la responsabilità», aggiunge Conte. Insomma, nessuna tentazione di fare passi indietro, tutt'altro. Il premier è deciso ad andare avanti per la sua strada. E questo, va detto, ha anche una sua ragionevolezza, visto che un cambio della guardia a Palazzo Chigi in un momento così delicato non sarebbe certamente indolore. Di contro, però, non c'è dubbio che l'approccio respingente di Conte verso le opposizioni non crea il clima di cui il Paese avrebbe bisogno.
Soprattutto se davvero, come annunciato ieri dal premier, nel decreto di aprile il governo è intenzionato a stanziare «altri 25 miliardi» per «incrementare il sostegno alla liquidità e al credito», chiedendo quindi al Parlamento un altro scostamento dal deficit. Tutte misure che avrebbero la strada spianata con un consenso bipartisan e in un clima di unità nazionale.
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