Raramente è dato leggere in un atto processuale una tale serie di insensate brutalità come quelle che vengono meticolosamente ricostruite nella sentenza sull’uccisione di Fabrizio Greco, bruciato vivo nel marzo 2009 a Rende, in Calabria, al termine di un litigio tra ubriachi. A colpire è la determinazione con cui il poveretto viene dato alle fiamme sostanzialmente senza motivo, se non per punire gli insulti lanciati nei confronti di due conoscenti dopo una serata ad alto tasso alcoolico. L’uomo che gli diede fuoco è già stato condannato con sentenza definitiva. Quello accusato di averlo tenuto fermo invece potrebbe farla franca, anche se i carabinieri lo trovarono ancora puzzolente di benzina. Motivo: secondo la Cassazione, le dichiarazioni del complice che confessava e lo accusava erano state rese in assenza di un difensore, e quindi non potevano essere impiegate contro nessuno dei due imputati. Una sentenza forse tecnicamente esatta, ma che rischia di lasciare in libertà un uomo della cui colpevolezza, a leggere le carte, sembra difficile dubitare.
A chiamare i carabinieri, quella sera di marzo, fu lo stesso assassino, tale Camillo De Maddis: «Venite, c’è un uomo avvolto dalle fiamme». Quando arrivò il 112, lo sventurato era già morto. «Dagli accertamenti medico-legali risultava che Greco, mentre era ancora in vita, era stato cosparso di liquido infiammabile nelle ragioni craniali, del tronco, dell’addome, agli arti superiori e inferiori». De Maddis ammette quasi subito, anche perché puzza di benzina lontano un miglio. Poco distante, in una cantina, viene trovato un altro uomo, Pasquale Gaccione, che urla per le ustioni alle mani. Ha le scarpe inzuppate di benzina e il giubbotto bruciato. Insomma, che fosse presente al delitto sembra ovvio. Anche perché, caricati su un furgone per essere portati in caserma, senza sapere di essere intercettati De Maddis e Gaccione parlano liberamente e concordano la linea. De Maddis promette al complice di prendersi tutta la colpa e di scagionarlo. In realtà, poi, appena arrivati in caserma, De Maddis oltre a consegnare ai carabinieri l’accendino dice che l’amico lo ha aiutato a immobilizzare la vittima.
Le indagini scoprono che i tre avevano passato la sera a bere tutti insieme, fino a quando avevano litigato. A quel punto De Maddis e Gaccione erano tornati in un bar e si erano fatti prestare prima una bottiglia e poi addirittura una tanica da riempire di benzina, spiegando di essere rimasti a secco. Poi erano tornati dal povero Greco dove De Maddis «aveva cosparso la vittima di benzina mentre Gaccione la teneva immobilizzata; quindi, dopo avere risposto con un tranquillizzante cenno dell’occhio alle perplessità di Gaccione, gli aveva fatto cenno di allontanarsi e aveva appiccato fuoco a Greco».
Difficile immaginare un contesto di prove più solido. Ma la Cassazione (giudice estensore Margherita Cassano) ha stabilito che «la confessione di De Maddis è stata acquisita dai carabinieri in palese violazione» del codice di procedura penale, visto che l’uomo doveva essere sentito come indagato. I giudici di primo e secondo grado avevano aggirato l’ostacolo, utilizzando come prova non la confessione di De Maddis, ma il racconto del fratello della vittima che in quel momento si trovava in caserma, e aveva sentito chiaramente raccontare per filo e per segno come era stato commesso il delitto. Ma niente da fare: per la Cassazione anche la testimonianza del fratello è inutilizzabile: «Tale sanzione si propaga necessariamente alle dichiarazioni del teste che, per circostanze fortuite, sia in grado di percepirle e di riferire il loro contenuto alla autorità giudiziaria».
È stato ordinato quindi un nuovo processo: e poiché la stessa Cassazione scrive che quella deposizione h
avuto «efficacia dimostrativa determinante ai fini decisori», il complice di De Maddis, l’uomo accusato di avere tenuto ferma la vittima fino a inzupparsi lui stesso di benzina e a ustionarsi le mani, potrebbe venire assolto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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