La domanda adesso non è se e quando ci sarà la guerra per Taiwan, ma come evitarla. Non è una differenza da poco. È come ribellarsi a un destino che ogni giorno scrive una parola nuova. Lo senti, lo vedi, prende forma e l'impatto futuro ti appare come qualcosa di inevitabile e ci vorrebbe tutta la saggezza perduta degli umani per scongiurarlo. Si sta entrando in una nuova fase, dove le vicende ucraine sembrano sempre più la prova generale di un teatro orientale dove davvero ci si gioca gli equilibri del mondo. Le sanzioni di Washington a cinque aziende cinesi accusate di aiutare la guerra di Mosca sono un passo oltre il confine. Pechino finge equidistanza, ma usa il capitalismo di Stato per sostenere Putin, finanziandolo, coprendogli le spalle dal punto di vista economico, allontanando le possibilità di una pace. Le sanzioni servono a Washington per dire: guardate che vediamo con chiarezza il vostro gioco. Il tempo delle finzioni è finito. Lo scontro diplomatico ora è incandescente.
Pechino rispedisce le accuse al mittente e accusa gli americani di «atteggiamento provocatorio». C'è, sostengono, un clima da guerra fredda. La Nato definisce le linee strategiche per i prossimi anni. La Russia chiaramente non è più «amica», ma soprattutto la Cina diventa la «sfida». Pechino, dice il segretario dell'alleanza atlantica Stoltenberg, si comporta da bullo con i propri vicini. Il fulcro del globo si sposta a Est. Si invita Pechino a non fare mosse azzardate su Taiwan, perché gli Usa e i suoi alleati non faranno un passo indietro. Non esiste la resa. La difesa dell'Ucraina è nulla rispetto a quello che può accadere nel Mar Cinese. Washington sta tessendo una rete che dalla Nato si dirama fino all'alleanza nel Pacifico con Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Pechino mette da parte gli antichi conflitti con Russia e India e cerca sponde in Sud America per spezzare la ragnatela occidentale. Non dissimula, ma risponde senza fronzoli alle mosse statunitensi: «Chi gioca con il fuoco si brucerà». Per loro la questione di Formosa, l'isola dove si sono rifugiati dopo la lunga marcia di Mao i seguaci di Chiang Kai-shek, è un affare interno alla Cina. Taiwan è Cina e Pechino se la riprenderà. Non ci sono santi. È inutile, dicono, illudere i separatisti. Si creano solo false speranze. Solo che Taiwan vuole morire liberal-democratica. Non crede alle promesse di Pechino. Ha visto quello che è successo con Hong Kong, dove ogni libertà è stata spazzata via.
Gli Stati Uniti hanno promesso decenni fa che avrebbero difeso Taiwan da qualsiasi invasione, a qualunque costo.
Non solo per etica, in ballo c'è la produzione quasi esclusiva di semi-conduttori. Taiwan accende e spegne miliardi e miliardi di computer. Ora questa promessa è stata rinnovata con la Nato. Come se ne esce? È una domanda che sembra avere una risposta impossibile, ma è qui che ci si gioca il futuro.
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