«Nei bunker le guardie russe non entrano più, tanti sono i morti. Nevica, nei bunker, e quando c'è la tormenta la neve si infila da ogni parte. Ogni mattina, all'alba, portiamo via i morti, tocca a noi sotterrare i nostri compagni». Vicino agli Urali riaffiora l'orrore dei soldati italiani prigionieri dei sovietici durante la seconda guerra mondiale descritto da Nuto Revelli nel libro La strada del davai, avanti, cammina, in russo.
A Kirov, 800 chilometri a nord est di Mosca, sono state scoperte delle fosse comuni dei soldati dell'Asse, compresi italiani, rimasti sepolti per oltre 70 anni. La prova è una piastrina consunta dal tempo di uno dei nostri dispersi in Russia recuperata dal Giornale. Si legge poco, ma è chiara la data di nascita: «lasse 1922». Un giovane soldato morto a soli 21 anni.
Due ricercatori russi, Alexey Ivakin e Andrey Ogoljuk, hanno cominciato a scavare in giugno, come ha scritto ieri il quotidiano di Trieste, il Piccolo. E dalla terra nella Russia europea sono tornati alla luce i drammi della seconda guerra mondiale. «L'area dei resti misura 500 metri di lunghezza e 100 di larghezza lungo la ferrovia. Abbiamo trovato delle ossa per una profondità di 4 metri. Il numero approssimativo di cadaveri potrebbe essere 15-20mila» scrive Ivakin, uno degli scopritori.
La cifra forse è esagerata, ma durante la disfatta di Russia furono uccisi in combattimento 20mila soldati italiani e ben 70mila morirono in prigionia e durante le famigerate marce del davai. Meglio note come marce della morte per raggiungere nella morsa del gelo e senza cibo i campi di concentramento. A Kirov sono arrivati i prigionieri ungheresi, italiani, romeni, tedeschi finiti in mani russe nel 1942-1943, durante e dopo la battaglia di Stalingrado e la liberazione di Voronezh. Nelle sacche provocate dal crollo dell'armata germanica è finito mezzo milione di uomini. E tanti non sono mai tornati a casa.
Alcune foto postate in rete dagli scopritori delle fosse mostrano un femore, delle scatole craniche e altri resti recuperati nei profondi buchi nel terreno scavati per ritrovare i corpi ridotti a scheletri. Una delle fosse si apre nella boscaglia, ma poi sembra espandersi su un erboso campo aperto. In un'immagine si vede la piastrina italiana di un nostro soldato nato nel 1922. Fra i resti sono state recuperate delle medagliette di santi appartenute ai soldati italiani prigionieri. Uno potrebbe essere Sant'Antonio da Padova o la Madonna.
L'ammasso di resti sottoterra si trova non lontano dalla ferrovia. Secondo l'Unione nazionale italiana reduci di Russia, «il campo di prigionia o lager n. 1149 di Belaja Kholuniza si trovava in una cittadina situata nella Regione di Kirov nel versante europeo degli Urali. Da Kirov partiva la linea ferroviaria che andava ai lager di Slobodskoj, Belaja Koluniza, Fosforitnj Rudnici e Loino» che furono l'inferno per tanti prigionieri dell'Asse compresi gli italiani. «Ci hanno detto che quando arrivavano i treni con i prigionieri scaricavano i morti vicino a Kirov seppellendoli nelle fosse ritrovate» racconta al Giornale, Gianfranco Simonit degli speleologi di San Martino del Carso, in Friuli-Venezia Giulia. «Ci occupiamo soprattutto di prima guerra mondiale, ma abbiamo molto contatti nell'Est Europa - spiega Simonit -. Gli ungheresi ci hanno informato della scoperta». Ivakin, uno dei russi che ha scavato da giugno, scrive in rete che «negli anni Sessanta erano già venuti alla luce dei teschi durante la lavorazione dei campi» ma tutto fu ricoperto e censurato.
Grazie all'interessamento degli appassionati friulani e della parlamentare del Pd, Laura Fasiolo, è stato coinvolto il ministero degli Esteri. Dall'ambasciata italiana a Mosca confermano, che se ne sta occupando l'addetto militare. Da Roma la vicenda è seguita da Onor Caduti, la struttura della Difesa, che recupera i resti dei nostri soldati dispersi durante la seconda guerra mondiale. La zona delle fosse era stata venduta per edificare villette, ma il comune di Kirov è intervenuto in luglio per risolvere il problema e iniziare le esumazioni vere e proprie. Lunedì prossimo il rappresentante di Onor Caduti si sentirà con un'equivalente struttura militare a Kirov per portare avanti le ricerche. «Prima li trascinavano a piedi nella neve per centinaia di chilometri. E poi li chiudevano in carri bestiame piombati senza cibo e acqua per giorni. Così morivano i prigionieri italiani dei sovietici, di stenti o di assideramento» racconta Guido Aviani Fulvio direttore del Museo della campagna di Russia in Friuli-Venezia Giulia. «I cadaveri venivano buttati denudati nelle fosse comuni come quelle di Kirov - spiega l'esperto -.
Per riconoscere oggi le ossa dei soldati italiani restano solo le stellette, le piastrine, che sono indistruttibili, o qualche elemento dell'uniforme, se non veniva portata via dai carcerieri o dai compagni di prigionia».Quasi 75 anni dopo, a 800 chilometri da Mosca, potrebbero tornare alla luce nuovi resti dell'esercito perduto nel calvario della prigionia in Russia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.