Se stare a casa può essere l'aiuto più efficace

Se stare a casa può essere l'aiuto più efficace

Tutti noi stiamo tifando che Silvia Costanza Romano, la giovane volontaria rapita in Kenya, possa tornare presto a casa. Ciò non toglie che la sua vicenda possa fare discutere sul ruolo e sul senso del volontariato nelle zone del mondo ad alto rischio insicurezza. Ne ha scritto ieri in modo interessante, sulle colonne del Messaggero, il sociologo Luca Ricolfi, pensatore mai banale (il professore mi perdonerà se attingo anche alle sue osservazioni). La domanda che dobbiamo porci è se la solidarietà può essere senza limiti e confini o se viceversa deve avere un prezzo oltre il quale non vale la pena spingersi, non tanto per chi la esercita direttamente - che evidentemente non si pone il problema - ma per la comunità intera.

Fare volontariato in zone ad alto rischio senza le dovute protezioni e contromisure, come spesso fanno molte organizzazioni non governative e com'è successo nel caso di Silvia, può comportare infatti costi altissimi. Il primo è quello puramente economico, cioè il pagamento del riscatto per liberare il volontario. Di solito servono svariati milioni di euro che non solo pesano sul bilancio della comunità di appartenenza ma vanificano anche la gratuità del gesto. Può accadere infatti che pochi mesi di volontariato costino all'azienda paese più di tutta la vita lavorativa di un professionista.

Il secondo costo è la perdita di etica pubblica perché per liberare l'ostaggio lo Stato è costretto a cedere al ricatto di bande criminali o terroristiche. Una trattativa immorale, vietata dalla legge e per questo negata, attraverso il sequestro dei beni, alla famiglia di un malcapitato che venisse rapito in patria a scopo di estorsione.

Il terzo costo è in vite umane. Non sono infatti rari i casi in cui c'è scappato il morto, o ha rischiato di scapparci, durante le operazioni per liberare o recuperare la persona rapita. Ma ancora di più, quante saranno le vittime dirette e indirette dei proventi del riscatto, reinvestiti sicuramente in armi e droga dai sequestratori escludendo che questi devolvano il bottino in beneficenza o lo usino per opere socialmente utili?

Queste domande non se le sono poste né Silvia né i responsabili dell'ong che l'ha spinta fino a lì. Mettere a rischio la propria vita e i propri soldi per nobili principi è una scelta personale da rispettare. Pensare però che ciò costituisca una sorta di immunità morale e giuridica è fortemente sbagliato.

Ed è bene tenere presente che se per caso qualche cosa va storto, i danni che si provocano, anche a chi si voleva aiutare, sono ben più importanti del bene che si è fatto o che si voleva fare. Se non ci sono garanzie di sicurezza, stare a casa propria resta certamente la migliore forma di aiuto al prossimo.

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