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"Sono un extraterrestre". La rivelazione cosmica di un italiano tra le stelle

Paolo Nespoli in orbita spiega come corpo e mente si adattano subito alla gravità zero

"Sono un extraterrestre". La rivelazione cosmica di un italiano tra le stelle

Milanese del 1957, Paolo Nespoli è alla sua terza missione nello spazio. Visti i suoi sessant'anni, potremmo anche pensare che sia l'ultima, ma lui, a scanso di equivoci, ha già dichiarato, a pochi giorni dalla partenza, il 28 luglio scorso dalla base russa di Baikonur, che già non vede l'ora di tornare, non più da astronauta, ma da turista. Detta così, sembrerebbe tutto normale, manco Nespoli fosse un commesso viaggiatore, o un Ministro degli Esteri in visita diplomatica, che so?, in Groenlandia, o ancora un missionario che sogna di tornare a distanza di anni nel Paese a cui è andato a prestare soccorso e trovarlo finalmente salvo, o quanto meno fuori pericolo. Ma il Paese verso cui è partito il nostro ingegnere e astronauta è per la gran parte ignoto, qualcosa di tanto vasto e inconosciuto che solo a pensarci mette spavento.
Un'altra cosa apparentemente normale, ma che non è per nulla scontata, è il fatto che abbia fatto delle dichiarazioni. Lo aveva annunciato prima di partire che avrebbe usato i social media per portare un po' di Spazio sulla terra. Dimenticatevi tutte le scaramucce e le cattiverie di Facebook, o gli spot politichesi di Twitter: qui lo strumento di comunicazione sociale va misurato, più che nel suo aspetto antropologico, da quello scientifico; ovvero, il mezzo è davvero uno strumento di comunicazione, di connessione tra due mondi. O, meglio che tra due mondi, tra due possibilità dell'umano. E cos'è appunto una scienza senza l'umano? Nespoli questo lo sa bene, perché non solo vuole portare un po' di spazio sulla terra ma trattenere con sé un po' di terra nei mesi della spedizione. A sentire l'intervista video che ha rilasciato dalla ISS e che è stata organizzata a Roma dall'Agenzia Spaziale Italiana e l'Agenzia Spaziale Europea mentre Nespoli galleggia nella sua stazione tra cavi penzolanti, ogni tanto lasciando la presa del microfono che gli rimane sospeso davanti al viso, appesi alle gambe due tablet, dalla terra i giornalisti, seduti in poltrona, fanno domande (un contrasto tanto netto da farci sentire minuscoli) non si può non riflettere su qualcosa che con tutta probabilità è marginale, se lo consideriamo nei termini del valore scientifico della spedizione. Quando Nespoli afferma che ci vogliono pochi giorni per abituarsi alla condizione di extraterrestre («bisogna imparare a camminare usando le mani e i piedi per stare fermi») e al contrario che occorrono mesi, una volta fatto ritorno, per ridiventare terrestri, ha evidentemente posto un interrogativo sulla natura dell'umano più filosofico che scientifico. Infatti, abbandonando la divisa dello scienziato, è entrato nel campo dell'ipotesi, immaginando che l'essere umano possieda per natura, «nel suo Dna», una flessibilità superiore a quella di cui comunemente facciamo uso e che viaggiare nello spazio ci permette di sperimentare le diverse possibilità del nostro corpo. Un corpo che lì, dice al principio dell'intervista, si abitua, per assenza di gravità, a fare a meno delle proprie stesse ossa.
Ora non mi domando tanto cosa, anzi come pensa un uomo che cammina con le mani e che non ha più ossa; non è tanto interessante, voglio dire, immaginare l'uomo trasformato in una particolare specie di invertebrato.

Quello che più affascina è notare come la mente di Nespoli, la mente di uno scienziato, muti così come muta il suo stesso corpo che agisce in uno spazio inconsueto; come la mente insomma si modelli insieme alla diversa percezione che abbiamo del nostro corpo. Di nuovo: cos'è la scienza senza l'umano? Ma si aggiunga: esiste una scienza che non sia prima di tutto una visione? Nespoli, dallo spazio, ci ricorda che il più grande mistero è ancora l'essere umano.

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