L’arresto dei quattro kosovari pronti a compiere un attacco a Venezia è l’ennesimo segnale della cosiddetta “Spirale Balcanica”, quel fenomeno che fin dai primi anni ’90 ha portato alla radicalizzazione islamista dell’area e che si affaccia oggi verso la sua fase più avanzata, la quinta. Venezia del resto è molto vicina ai Balcani.
In sunto, se in una prima fase che va dal 1991 al 1995/99 l’area balcanica è stata infiltrata da centinaia di jihadisti accorsi in loco per combattere affianco dei musulmani di Bosnia e successivamente, seppur con numeri largamente inferiori, anche in Kosovo e Macedonia (come ad esempio le unità el-Mudzahid ed Elezi), in seguito alla fine dei relativi conflitti si è passati a una seconda fase d’infiltrazione ideologica messa in atto da ex combattenti rimasti nell’area e dalle nuove generazioni che avevano combattuto al loro fianco. Con l’ausilio di finanziamenti provenienti da Paesi e ONG mediorientali e la costruzione di moschee e centri culturali si è passati ad una terza fase con ampia diffusione dell’ideologia wahhabita e salafita tra la popolazione, in particolare nelle zone ad alto tasso di disoccupazione e dove è presente una forte crisi economica.
La quarta fase parte con lo scoppio delle “Primavere arabe” e della guerra civile in Siria, quando molti volontari dei Balcani si uniscono alle milizie jihadiste, sia qaediste che dell’ISIS e formano vere e proprie unità composte in prevalenza da combattenti balcanici, come ad esempio la brigata guidata dal sanguinario Lavdrim Muhaxheri. E’ la prima volta che un numero così elevato di musulmani provenienti dai Balcani si mobilita per andare a combattere una guerra all’estero.
Con la pesante sconfitta subita dal Califfato in seguito all’offensiva militare russa coordinata con l’esercito regolare siriano e quella messa in atto dai curdi e dall’esercito iracheno, c’è il rischio che molti jihadisti (qaedisti e dell’Isis) rientrino nei propri Paesi e utilizzino le tecniche apprese sul campo di battaglia per destabilizzare i Balcani e per penetrare all’interno dell’Unione Europea, grazie anche alla permeabilità di alcuni confini.
Vi è inoltre il pericolo che elementi balcanici non necessariamente veterani delle zone di guerra, ma radicalizzati a casa propria o sul web, possano organizzare attentati, anche emulativi, prendendo spunto da quelli recenti di Londra, Anversa e Orly.
Alcuni segnali c’erano già stati con i due video del maggio e luglio 2015 che inneggiavano al jihad nei Balcani, come “Honor is Jihad: a message to the people of the Balkans”, e “Mi smo Islamski Halifet” (noi siamo il Califfato islamico), il primo, più lungo, analizzato dal centro studi sul terrorismo Itstime/Università Cattolica.
Il caso della cellula kosovara di Venezia ha ancora dinamiche poco chiare, al punto tale che è necessario essere cauti anche sul fatto che di cellula si possa parlare.
Molti sono gli aspetti da approfondire, a partire dall’eventuale presenza del presunto capo-cellula, Arjan Babaj, in Siria da dove sarebbe rientrato nel maggio del 2016. Era veramente lì? Era andato per combattere? Se affermativo, allora come ha fatto a rientrare beffando i controlli e riuscendo addirittura ad avere dei regolari contratti di lavoro e affitto a Venezia? Il gruppo di estremisti era autoreferenziale o collegato a una catena di comando? E’ dunque prematuro trarre conclusioni o affermare che si è entrati nella quinta fase della “Spirale Balcanica”.
Una cosa è certa però, se fino a pochi anni fa c’era la tendenza da parte di diversi analisti del panorama anglosassone nel dire che nei Balcani non vi era un rischio di radicalizzazione islamista, oggi i medesimi affermano il contrario. Peccato che i segnali erano già presenti da tempo, solo che forse all’epoca l’infiltrazione islamista era utile per determinate strategie di politica estera espansionistica da parte di quella NATO che oggi si trova a dover fare i conti con le relative conseguenze.
Non dimentichiamo che pochi giorni fa i media serbi hanno rivelato che l’attentatore di Westminster, Khalid Masood, avrebbe combattuto in Bosnia nel battaglione el-Mudzahid.
Altro aspetto da tenere in considerazione è l’alto tasso di radicalizzazione islamista in Kosovo, con numerosi predicatori radicali attivi, anche in carcere secondo alcune fonti.
Il Kosovo ha di fatto il più alto numero di jihadisti partiti dai Balcani, 316 secondo le ultime stime, di cui circa 150 rientrati in patria ed è anche il Paese che avrebbe fornito il maggior numero di foreign fighters in rapporto alla popolazione.Non a caso i quattro arrestati sono kosovari.
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