Sull'Italia in zona gialla incombono già i pasdaran delle chiusure

L'Italia in zona gialla e riaperture: l'entusiasmo non è condiviso da tutti. Forse ad una parte della politica non piace "vivere"

Sull'Italia in zona gialla incombono già i pasdaran delle chiusure

Le spiagge già piene, le passeggiate in centro con il gelato, o il bianchetto fresco, da asporto - ça va sans dire; i parchi e i giardini pubblici dove qualche temerario trasgressore già tirava due calci ad un pallone, con gli amici o con i figli. Da oggi quasi tutta Italia torna in "zona gialla", come l'anno scorso, in coincidenza subliminale con la liberazione; ma già nel week end in tanti si sono concessi una indulgente tana libera tutti. E i rigoristi, i presenzialisti dei talk televisivi con il lockdown generalizzato sempre pronto nel taschino, gli stessi che all'inizio ridevano del Covid, i pasdaran delle chiusure e del coprifuoco degli editoriali terroristi, non hanno mancato occasione per lanciare minatori messaggi di sconforto: l'allarme riaperture.

Dalle Alpi all'Eolie il desiderio è soltanto uno: aprire e uscire. Alzare il telefono, chiamare il ristorante di un amico che sta passando tempi duri, e dire "siamo in quattro" dicci quando. Farsi una passeggiata per negozi e comperare un "pensiero" per se o per altri senza dove badare alle regole draconiane di cosa “si può” e non può acquistare (mutande sì, magari pantaloni no), nonostante le sanificazioni da milioni di euro che poi pare non servano poi a molto (svelano alcune ricerche). Chiamare la fidanzata che vive in un'altra regione e finalmente dire: "Stasera ti vengo a prendere", e poi andare a cento all'ora come cantava Morandi - limiti di velocità permettendo. Insomma essere liberi di fare quel che si vuole in ottemperanza delle regole che il governo “consente” per ricominciare a vivere e sopratutto a “lavorare”. Ma non tutti condividono questo entusiasmo.

"Un incubo perfetto" scrivono alcuni, "il rischio di tornare a chiudere" dopo aver chiuso, dicono quasi a fare una supercazzola altri - e parliamo di opinionisti e "professoroni" eh! Non di gente intervistata per la strada con domande capziose che poi montate ad arte. A Milano sui Navigli, a Roma in Via del Corso, a Napoli in Via Toledo, e via dicendo.

Di norma sono gli appassionati incesatori della delazione a restare sul “chi vive” per poi rinfacciare, iettatori, il “ve lo avevamo detto”. I vicini con la fascinazione segreta per le spiata vendicativa e il feticcio per la Stasi, i collaborazionisti mancati dell’Ovra che però cantano “Bella ciao”, alla faccia del catcalling, e dell’odor di "dittatura sanitaria". I rigoristi che scrivono lunghi papiri sui social quando si trovano sotto casa dieci adolescenti con sei birre al pomeriggio, o che sentono il dirimpettaio che magari sta festeggiando la laurea - in videoconferenza - del figlio in più di 6 anime.

Quelli del "compatiamo le difficoltà dei commercianti e lo sfinimento portato dalla pandemia" - "ma dovete restare a casa, ospitando e cenando con la mascherina, anche se le regole fuori concedono più libertà di movimento”. Perché è "pericoloso". E torna il "rischio cena fuori” e il "pericolo cenerentola", che se torni a casa dopo lo scoccare della mezzanotte il virus sicuro lo prendi tu. La mattina in metrò per andare a lavoro, uno in braccio all'altro, tra pendolari sconosciuti e non tracciabili - l'app Immuni è solo un ricordo: il ricordo di un fallimento - invece no.

"Monitoraggio degli spostamenti" e "interventi mirati”. Ancora una volta ai danni di quella che i "matusa" chiamano "la movida”. Dimenticando che andare a messa e andare a passeggio sui Navigli ha differente senso ma egual rischio di contagio: nello scambiarsi un segno d'amicizia o di pace che sia.

Eppure come nel Medioevo l'Inquisizione spagnola si impegnava in una zelante caccia alle streghe, oggi, di nuovo, una parte del governo - quella corsa ad abbracciare i cinesi e a spesare video emozionali alla "Milano non si ferma" - oggi suffraga la caccia all’aperitivo, all'assembramento, e al frutorie del dopo cena. Zelanti avversari della passeggiata digestiva. Perché anche se il premier Mario Draghi ha concesso un segnale di speranza (non Roberto, che si è detto “terrorizzato” a vedere "due persone nella stessa auto"), i morti al giorno sono ancora trecento e più. Ancora. Appunto. Dopo più di un anno dal "siamo pronti", dai "protocolli d’emergenza" e i “dossier particolari”, dalle "chiusure coatte" e "arbitrarie", dai coprifuoco privi di alcuna evidenza scientifica presi in prestito dalla Corea del Nord (che in effetti essendoci stato posso dirlo: dalle 22.00 in poi non gira un'anima), dall'aumento, blando, dei posti nelle terapie intensive, alle vaccinazione in massa che poi in massa ancora non sono.

Anzi, procedono a rilento e forse, col senno di poi, hanno propeso per scelto poco "strategiche" - nonostante l'intervento dei militari. Un trentenne privo di patologie o lavoro a rischio come chi sta battendo i tasti dal suo bunker scrittorio, attenderà l’inverno del 2022. Mentre l'estate è alle porte, e vale la pena iniziare davvero a domandarsi che estate sarà questa: se sarà come la scorsa, tutto sommato un'estate, o se torneremo a valutare come mettere una barriera di plexiglass tra gli ombrelloni, quando finiremo a fare tutti il bagno nello stesso mare. E anzi che ancora non ho sentito nessuno dire “forse dovremo stare a mezz'acqua con la mascherina”. Magari impermeabile, di quelle che potrebbero dare in omaggio con le riviste in edicola, al posto dei vecchi gadget da spiaggia. Forse abbiamo ancora paura di risponderci.

L'unica certezza sembra essere quella di notare intorno a noi persone pronte a “rischiare per vivere”. Audaci intesi ad abbandonare questo stato di guerra convenzionale, che preferiscono convivere con il pericolo. Ecco: abituarsi a convivere con il virus come ci abituammo a vivere con la minaccia del terrorismo - che oggi in Occidente molti hanno dimenticato, ma che s’era saputo fare spazio tra i nostri peggiori incubi. Abituarci a fare come Israele - il vero modello altro che "modello Italia" di Giuseppe Conte. Che quando a Tel Aviv mettevano le bombe sui bus, il giorno dopo la gente prendeva coraggio e saliva sempre e comunque su un bus. Perché altrimenti non si viveva più. E bisogna avere coraggio per vivere quando si rischia davvero di morire.

Ce lo dimostrano meglio di tutti i nostri cinquantenni e sessantenni: quelli che forse hanno più da perdere. Non sono gli ultra centenari già vaccinati con la consapevolezza che il loro viaggio sta comunque giungendo al termine; né i giovanotti che guardano al virus come una stupida influenza (come diceva quella famosa virologa). Non sanno quando riceveranno la fatidica puntura che si spera possa mettere fine a tutto questo. Ma escono. Per prendere il gelato, per guardare il tramonto al mare, per godersi il loro tempo libero in compagnia.

Forse è proprio il caso di dirlo: per loro la voglia di vivere dev'essere più forte della paura di morire. E per fortuna. Aggiungiamo. Per fortuna. Viva la liberazione dunque. La nostra, un anno dopo. Per quanto possa durare.

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