Scena del crimine

La strage e i cadaveri murati in casa: la vera storia del "Mostro di Bari"

La storia di Franco Percoco, il Mostro di Bari che uccise i genitori e uno dei fratelli: scontò 20 anni di prigione ma non commise più reati

Una scena del film su Franco Percoco (Fonte: Ufficio stampa Apulia Film Commission)
Una scena del film su Franco Percoco (Fonte: Ufficio stampa Apulia Film Commission)

Ci sono diversi interrogativi che sorgono quando si legge la storia del Mostro di Bari. Franco Percoco massacrò il padre, la madre e uno dei fratelli, in una strage che alcuni paragonano al delitto di Avetrana. Ma le sole cose che il caso di Percoco ha in comune con quello di Sarah Scazzi sono che l’omicidio sia maturato in famiglia e che i fatti siano avvenuti in Puglia.

La vicenda è diventata oggetto di un libro, “Percoco” di Marcello Introna, uscito nel 2016 per Mondadori. Dal libro di Introna sarà tratto il film “Happy Days - La vera storia del Mostro di Bari”, diretto da Pierluigi Ferrandini, le cui riprese sono in via di conclusione a dicembre 2021. “La storia di Percoco nella mia città, Bari, non è mai tramontata, ma è sempre aleggiata - racconta lo scrittore Introna - quando ero bambino mi è capitato di passare con i miei genitori sotto al palazzo dei Percoco, che è stato abbattuto nel 1983. Mi fu detto che lì viveva lo studente universitario che uccise i genitori e li murò in una stanza. Mi era passato di mente, ma dopo il delitto di Avetrana trovai un trafiletto su un quotidiano che ricordava la storia di Percoco. Mi tornarono in mente i miei ricordi di bambino. Con Ferrandini pensammo di realizzare un cortometraggio, ma mi resi conto che la vita di questo giovane era costellata di spunti narrativi e un corto sarebbe stato riduttivo, quasi un mancare di rispetto alla storia. Scrissi un soggetto che si allungava sempre, diventò un romanzo”.

Chi era Franco Percoco

Classe 1930, Percoco era figlio di un ispettore delle Ferrovie e di una casalinga. Vincenzo ed Eresvida Percoco avevano tre figli. Il primogenito Vittorio era affetto da cleptomania e al momento della strage era in carcere per un piccolo furto compiuto con Franco, quando questi aveva appena 13 anni. E in galera la pena era stata aumentata a causa di alcuni tentativi falliti di evasione e per il furto di vestiti dalla lavanderia della prigione. Franco era il secondogenito, pessimo negli studi e talvolta dagli atteggiamenti indecifrabili: su di lui però i genitori avevano scommesso, in particolare la madre, desiderosa di accrescere la propria posizione sociale, dopo aver sposato un uomo inviso alla sua famiglia benestante. C’era poi Giulio, il terzogenito, dolce e sorridente giovanotto con la sindrome di Down.

Le attese dei genitori divennero per Franco però quasi un abuso psicologico, ma questo non giustifica le sue azioni. “Essere vittima di abusi psicologici per tutta la vita sicuramente ha un effetto e delle conseguenze sul comportamento di una persona, ma non tanto da portarla a commettere dei reati - commenta la psicologa clinica e criminologa Lorita Tinelli - L’abuso psicologico o fisico crea dei problemi a livello di struttura di personalità se è avvenuto negli anni di formazione, ma non porta ad avere un agito così cruento e terribile. La storia che viene riportata è quella di un ragazzo sicuramente con delle capacità ma che oggi potrebbe far pensare a una psicosi lucida, a un’azione dovuta a un disturbo: da quello che si legge, non emerge l’aspetto emotivo di questo ragazzo, evidentemente una persona lucida e al tempo stesso disturbata”.

Oggi si penserebbe ai Percoco come a una famiglia uguale a tante altre all’esterno, ma nel 1956, quando la strage irrompe nella loro casa di via Celentano 12 a Bari, i Percoco sono persone stressate: i genitori a causa della condizione di Giulio - e perché gli altri figli non sono ritenuti all’altezza delle loro aspettative -, Franco perché i suoi genitori hanno posato sulla sua schiena un masso pieno della loro ambizione. “Percoco - prosegue Introna - in base a quello che ho letto negli atti del processo, era una persona particolarmente predisposta all’esaurimento nervoso e su di lui convergevano aspettative spasmodiche di progresso sociale del blasone famigliare”.

Per parte della sua vita l’unico a essere felice tra loro è Giulio, contento di giocare a guardie e ladri, bere Coca Cola al pranzo della domenica, collezionare scatole di fiammiferi vuote. Però un giorno anche Giulio smette di essere felice: un esaurimento nervoso di Franco lo costringe per due anni in manicomio a Bisceglie, struttura dalla quale esce silenzioso e cambiato.

Nel 1948, quando Franco venne bocciato all’esame di maturità da privatista, si era innamorato di una prostituta napoletana di nome Maria. Quando lei lasciò Bari per alcuni mesi a causa della malattia di sua madre, Franco rubò dei beni alla famiglia per trascorrere con l’amata un’ultima giornata insieme e poi fuggì in Lombardia, prima a Como e poi a Milano, dove contrasse la sifilide in un bordello e dove iniziò a manifestarsi il suo esaurimento nervoso. Venne arrestato per altri furti commessi in Lombardia, ma poi rilasciato con la fedina penale pulita quando il padre pagò tutto, multa e risarcimento. Tornato a Bari il medico gli prescrisse riposo e iniezioni di bromo arsenioso. “Questo esaurimento - chiarisce Tinelli - può essere stato l’esordio di un disturbo mentale. Ragionando sulle ipotesi, se fosse stato letto in altro modo, forse non si sarebbe arrivati alla strage”.

Si è tentati di pensare, a torto, che Percoco sia stato a un tempo carnefice e vittima, che la società che non l’aveva compreso abbia le sue colpe. “Era un periodo di ascesa per il boom economico italiano - prosegue Introna - Prendo in prestito le parole di Antonio Stornaiolo, che diceva che le persone non erano più troppo disposte a occuparsi del vicino quando a riempire il proprio piatto. È stato il momento in cui abbiamo iniziato a pensare a noi stessi, alla carriera, a un benessere egoriferito che partiva dagli altri ma prescindeva dagli altri. Io però ritengo che i problemi di Percoco siano maturati nel suo stretto ambito famigliare”.

Fino al 1956 si annoverano una serie di vicissitudini per Franco Percoco: le difficoltà negli studi universitari che lo spinsero a cambiare facoltà tre volte nonostante gli esordi brillanti, il congedo dalla leva a causa di una truffa in caserma per ottenere un permesso e naturalmente, ancora una volta, le pesanti aspettative dei suoi genitori. “Sempre nell’ottica delle ipotesi - prosegue Tinelli - è possibile che Franco fosse visto dalla famiglia come il ‘figlio sano’. Le aspettative non possono essere il movente dell’omicidio, a un certo punto c’è stato un punto di rottura nella costruzione della personalità e questo ha portato alla strage. Anche da adolescente Percoco non aveva comportamenti sempre sani, ma agiti che avevano significati che andavano indagati, cosa che si fa oggi in psichiatria”.

La strage e la fuga

Una scena del film su Percoco
Una scena del film su Percoco (Fonte: Ufficio stampa Apulia Film Commission)

I coniugi Percoco e il figlio Giulio furono massacrati nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1956. Franco, dopo essersi ubriacato con del cognac trovato in casa, accoltellò la madre e il padre mentre dormivano. Il fratello si svegliò, e Franco massacrò anche lui, dopo averlo rassicurato che andava tutto bene. Trascinò il cadavere di Giulio nella stanza dei genitori e li coprì, sigillando la porta con scotch e colonia della madre. Nei giorni successivi, fece lo stesso con una fessura nel muro dovuta a un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale: i vicini iniziavano a sentire l’odore dei cadaveri in decomposizione. A giugno fuggì, dapprima a Napoli e poi a Ischia, dove rimase fino al 9 giugno.

La cattura e la confessione

Proprio quel giorno, apprese dalla Gazzetta del Mezzogiorno, che i cadaveri dei suoi famigliari erano stati scoperti e che le forze dell’ordine lo stavano cercando. Quel giorno Franco cambiò hotel a Ischia, registrandosi con le sue vere generalità: fu trovato e arrestato dalla polizia, che lo portò a Bari l’11 giugno, dove confessò parte della strage: ricordava di aver ucciso i genitori ma non il fratello. "Può essere che abbia rimosso - suppone Tinelli - Stiamo ricostruendo un fatto avvenuto negli anni ’50, quando la psichiatria aveva una lettura differente delle situazioni rispetto a oggi. Bisognerebbe vedere com’è stato trattato dal punto di vista psichiatrico questo caso all’epoca: parliamo del pre-Basaglia, cioè quando non vedevamo la persona col disturbo ma il disturbato, una visione meno umana della malattia. Da quello che si legge, Percoco ha fatto nei giorni successivi uso massiccio di alcol, per cui il racconto può essere stato deformato da quegli eccessi. Può darsi anche che si sentisse in colpa”.

Percoco, ormai per tutti il Mostro di Bari, fu condannato all’ergastolo il 12 luglio 1958, ma ebbe uno sconto a 30 anni. Fece inizialmente ricorso, dato che gli era stata riconosciuta l’infermità mentale, ma poi lo ritirò affermando di voler scontare tutta la propria pena. In realtà Franco uscì di prigione nel gennaio 1977 e trascorse un periodo anche nell’allora manicomio di Aversa: andò a vivere dapprima a Napoli e poi a Torino, dove morì nel 2001.

Non commise più nessun reato. “Mi è capitato di analizzare persone uscite da Aversa - conclude Tinelli - Escono sotto l’effetto massiccio di tanti farmaci: può essere che Percoco abbia contenuto i sintomi con una terapia e sia diventato una persona ammorbidita dai farmaci. Successivamente non sappiamo come sia stato curato, ma può essere che la cura farmacologica abbia ammansito il sintomo”.

Il dibattito sui contenuti della cronaca nera

C’è una storia collaterale legata al Mostro di Bari, un dibattito che ha a che fare con ciò che i media possono o non possono rivelare nei casi di cronaca nera. La Gazzetta del Mezzogiorno, che già durante i giorni delle ricerche e della cattura si era espressa in modo infelice riferendosi a Giulio e alla sua condizione, fu sequestrata per aver riportato i dettagli della strage come raccontati da Franco nella sua confessione. Tutte le copie del quotidiano furono ritirate e due giornalisti vennero dapprima condannati e poi assolti al terzo grado di giudizio: si trattava del direttore Luigi de Secly e del corrispondente Ciro Buonanno, che però non rientrarono mai nel quotidiano.

Il sequestro e la fine della carriera per i due giornalisti è legato alla legge n.47 del 1948, che regola la stampa e in particolare mette in guardia le pubblicazioni che illustrano “con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.

“Intuirono che la spettacolarizzazione dell’orrore faceva notizia e interessava, perché batteva sulla curiosità dell’ignoto - conclude Introna - Quell’intuizione la pagarono caramente ma negli anni a seguire, fece la fortuna di molta gente”.

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