A volte i tesori sbucano fuori dove non andresti mai a cercarli, le perle occhieggiano nel fango, e gli argenti luccicano in stanzini polverosi.
Quarantatré oggetti liturgici in oro e argento della comunità ebraica di Venezia, dimenticati per settanta anni nel sottoscala delle sinagoghe della città, sono stati ritrovati, durante i lavori di restauro, in mezzo a cumuli di polvere e reti di ragnatele, e oggi sono esposti alla Ca’d’Oro. Certamente preziosi per i materiali usati, e la perizia degli artigiani veneziani che li hanno forgiati tra il XIII e il XIX secolo, sono unici anche per la storia che ci consegnano.
Un racconto che si snoda tra le calli e i campielli del ghetto di Venezia, e che ruota attorno a un segreto tenacemente custodito e a un oblio lungo sette decenni.
Nel settembre del 1943, due custodi della sinagoga spagnola e di quella levantina, avvisati dell’arrivo dei tedeschi,nascosero nel sottoscala alcuni argenti usati a scopo liturgico. Corone, teche, decori per avvolgere i rotoli della Torah. I due furono deportati e non fecero più ritorno, e così il tesoro, messo in salvo dal saccheggio nazista, è rimasto avvolto in una nuvola di polvere e di oblio fino ai giorni nostri. Scoperto per caso, adesso è esposto allla Ca d’Oro, dove rimarrà fino al 29 settembre.
Artefici dell’operazione Venetian Heritage, organizzazione americana no profit per la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale di Venezia, è Vhernier, marchio italiano di alta gioielleria, che ha dato nuova vita agli antichi oggetti di rito, contribuendo a preservare una parte della memoria storica del popolo ebraico.
Oltre a sostenere il progetto di restauro dei quarantatré pezzi, Vhernier, ha creato un prezioso capolavoro di arte orafa: Neder, un anello dalle forme che ricordano quelle degli antichi sigilli, realizzato in oro rosa, granato, madreperla e cristallo di rocca. Il significato ebraico è «Promessa», termine ricorrente in tutta la cultura ebraica, e la creazione è stata presentata, insieme al tesoro ritrovato, per celebrare il 500esimo anniversario del ghetto di Venezia, che cade nel 2016.
Quel ghetto le cui porte si aprivano all’alba per richiudersi la sera, e la cui struttura ha resistito agli assalti del tempo, con i due campi circondati da case alte - soprattutto per gli standard veneziani dell’epoca - un piccolo museo e le antiche sinag oghe, ancora integre. Sviluppato su un’isola completamente circondata dal canale, le sue entrate potevano essere controllate attraverso i ponti.
Prima del 1516, il «serraglio dei giudei» aveva ospitato una fonderia di cannoni, un «getto» in veneziano, trasformatosi poi, nella pronuncia degli ebrei askenaziti di origine tedesca, in «ghetto». Poche le professioni che gli ebrei avevano il diritto di esercitare: potevano essere medici, per la loro riconosciuta abilità nel settore, commercianti al dettaglio di oggetti usati, e naturalmente prestare denaro, lavoro alla base dei più diffusi pregiudizi antiebraici, ma la cui origine è da ricercare all’esterno della comunità. Il motivo? «Il prestito – spiega Riccardo Calimani, storico e Presidente della Comunità ebraica veneziana –era un’attività necessaria in una città dinamica come Venezia, ma non era praticabile dai cattolici. La riscossione degli interessi equivaleva alla vendita di una risorsa sacra, il tempo, e ancor peggio, aveva il potere di fare generare il denaro dal denaro, reputato sterile per definizione.
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