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Vi racconto tutti gli enigmi dell'"amerikano" Andreotti

Vi racconto tutti gli enigmi dell'"amerikano" Andreotti

Avrebbe cent'anni e lo conoscevo bene: Giulio Andreotti detto anche il divo Giulio, l'uomo sospettato di essere dietro ogni enigma anzi, di essere lui stesso l'enigma della Prima Repubblica. A lui è legata la memoria di quella democrazia italiana del Dopoguerra e dell'età dorata della ricostruzione e delle magnerie, che siamo costretti a rimpiangere visto come è andata per ora a finire. Strano uomo, sofisticato uomo. Elegante e gobbo, mai sfarzoso ma mai povero, fortissimo senso della famiglia, cattolico autentico, a messa ogni mattina all'alba, sempre presente, sempre in anticipo, sempre pronto alla battutina caustica, feroce, sminuzzante, un po' pretesca. L'ho avuto come nemico acerrimo nella Commissione Mitrokhin l'unica di cui abbia fatto parte nella sua lunghissima vita ed era alleato dei comunisti e post-comunisti. Anche il figlio mi sembra l'abbia detto recentemente: Andreotti, come del resto il suo amico-nemico Francesco Cossiga, a forza di studiare il nemico della Guerra Fredda tra occidente filoamericano e oriente filorusso, aveva finito con l'andare a letto col nemico e diventare uno di loro. Scambi di lettere, bigliettini, citazioni, festeggiamenti.

Certo, ricordo Andreotti giovane deputato: tutti i conventi di suore e seminaristi e frati avevano l'ordine di votarlo. Pupillo di Pio XII Pacelli, il papa del bombardamento di Roma, si era rifugiato come Eugenio Scalfari («Italo Calvino aveva la montagna dietro casa, io avevo il Vaticano», mi disse un anno fa il fondatore di Repubblica) nelle biblioteche papali dove stazionavano fior di antifascisti e molti rifugiati ebrei. Lì conobbe Alcide De Gasperi che era l'astro nascente della Democrazia cristiana in conflitto frontale con il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti agente di Stalin fin da quando si chiamava «Ercoli» ed era il numero due del Comintern. Giulio era stato un bambino vestito di velluto e giocava nel rione Parione dietro a piazza Navona con mia madre e con mio zio. E di questi antichi compagni di giochi mi chiedeva spesso in attesa dell'inizio delle nostre sedute di Commissione sulle spie sovietiche, dove fece di tutto per sabotare i nostri lavori e ci riuscì. Poi ci vedevamo in Senato, aveva dovuto accettare per forza il ruolo di senatore a vita dal bizzarro Cossiga che così volle metterlo fuori gara e al Senato Andreotti scriveva sempre, continuamente, vecchissimo e puntualissimo, con la sua scrittura nitida, con penna stilografica sui foglietti bianchi e senza righe del Senato. Ha lasciato il velluto liso, in quel banco di prima fila, perché lui c'era sempre, era sempre il primo e quando prendeva la parola nessun presidente osava misurargli il tempo: parlava quanto gli pareva e usava le battute, l'ironia, anche e specialmente quella parlata romana delle antiche famiglie-bene, ma anche povere. Mia nonna e sua madre erano diventate amiche perché avevano i figli al collegio degli orfani e quando ero un adolescente detestavo questo politico onnipotente e setoso che saliva da noi a prendere un caffè. Era l'epoca, fine anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta, in cui Giulio era considerato l'«Amerikano» con la kappa, l'uomo dei servizi segreti, della Cia, del Vaticano, della Curia, di coloro che facevano contratti con il ministero della Difesa, di cui spesso era titolare. Avendolo avuto intorno, prima come giornalista e poi come politico, per tutta la vita, credo si possa dire che Andreotti sia stato sovrastimato. Disse effettivamente tutte le frasi per cui andò celebre, prima fra tutte che «il potere logora chi non ce l'ha».

Ma lui il potere lo perse. Quando era in corsa per il Quirinale, Cosa Nostra ammazzò il suo luogotenente in Sicilia Salvo Lima e gli stroncò le gambe. Era fuori, lo sapeva e sapeva anche quale sarebbe stato il passo successivo: lo avrebbero accusato di essere lui stesso un referente mafioso, di aver incontrato e baciato Totò Riina in un albergo a Palermo. Lo andai ad aspettare alle cinque del mattino sotto casa a Corso Vittorio la mattina successiva all'avviso di garanzia. Eravamo pochi cronistacci d'assalto e lo accompagnammo a messa. Era imperturbabile, o voleva sembrarlo. Con successo. Un po' meno imperturbabile fu quando la mia intervista al suo luogotenente romano Franco Evangelisti passata alla memoria come «'A Fra' che te serve?» costrinse il suddetto Evangelisti a dimettersi. Giulio gli sussurrò soltanto, davanti a testimoni, una invettiva: «Imbecille». Lo seguimmo anche alle sedute del processo a Palermo e Giulio era sempre uguale: puntuale, preciso, dimesso, con i suoi fogli bianchi, cordiale con i cronisti ma di poche parole. Fu assolto e considerò la cosa naturale, e giocò sempre con un certo fair play, anche se se la legava al dito per tutto, non dimenticava nulla, specialmente la vendetta quando il piatto non era più fumante. Era un grande amico di Giovanni Falcone e secondo me questa amicizia costò la vita a Falcone perché fu Andreotti me lo disse Cossiga a suggerire il nome di Falcone ormai ridotto alla direzione delle carceri in via Arenula, per aiutare i russi post sovietici a chiudere il rubinetto che trasferiva l'oro di Mosca in Sicilia dove era riciclato. Lui, Andreotti, non voleva esporsi con i comunisti da cui sperava ancora di avere il voto per il Quirinale, ma a Falcone fece avere attraverso la Farnesina i documenti necessari. E venne Capaci. E poi via d'Amelio. E al Quirinale andò Scalfaro. Fino allora il divo Giulio aveva duellato con Bettino Craxi, l'astro del socialismo anticomunista, quando però lui, Giulio, non era più anticomunista affatto. Gli americani, che avevano sostenuto la sua leadership negli anni più duri della Guerra Fredda, erano diventati sempre più diffidenti della sua politica personale che era filoaraba, filopalestinese, filosovietica. Con gli arabi aveva sempre trattato. E anche Aldo Moro aveva sempre trattato. La miracolosa incolumità italiana di fronte alle stragi arabe in Europa si deve alla politica aperturista della Democrazia cristiana che teneva i piedi in tutte le staffe: americana a Washington, amica della comunista Mosca, dei Palestinesi ovunque fosse possibile, con fortissima irritazione di Israele. Il suo rapporto con i comunisti era incestuoso: adorazione reciproca e cattiverie micidiali, accuse infamanti e poi strette di mano e abbracci coniugali. Gli americani si dice l'Fbi insieme a grandi procuratori fra cui Rudolph Giuliani oggi legale di Trump ordirono l'operazione Clean hands, in italiano «Mani Pulite» la cui vera storia nessuno ha mai voluto raccontare ma che si trova in pochi libri in inglese mai tradotti in Italia fra cui The Italian Guillotine di Stanton Burnett e Luca Mantovani. Sovrastimato come complottista, adorava essere sovrastimato. Scrittore facondo e non particolarmente attraente, pubblicò una quantità di libri di memorie e di retroscena non esplosivi. Ha avuto eleganza nel morire, restando praticamente da solo e passando un anno di crudeli sofferenze. Minimalista, minimizzava tutto ciò che lo riguardava. Della morte imminente disse solo «non sto troppo bene». È stato uno dei Dna della Repubblica e forse l'attore che lo rappresentava di più era Alberto Sordi. Detestava il film che Sorrentino fece su di lui e che lo mandò in bestia.

Imprecò in silenzio e la mattina dopo si andò a confessare all'alba.

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