Oggi ha quasi sessant’anni e dentro di lui, oltre al ricordo delle vittime, porta ancora i segni dell’agguato a cui è sopravvissuto. Colpito da sette colpi di fucile calibro 12, quattro dei quali sono rimasti nella sua schiena da trent’anni, oggi Vito Tocci, può ancora raccontarlo.
Era il 30 aprile 1991 ed erano trascorsi pochi mesi dalla strage che aveva sconvolto l’Emilia Romagna e che aveva visto cadere sotto una pioggia di 122 proiettili, nel quartiere Pilastro di Bologna, tre giovani carabinieri: Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, per mano dei killer della cosiddetta "banda della Uno bianca".
Vito Tocci aveva 27 anni, prestava servizio a Rimini e quella sera iniziò il suo turno all’una di notte. Con lui nell’auto di pattuglia, c’erano altri due carabinieri di leva: Mino De Nittis alla guida e Marco Madama sul sedile posteriore. Un turno come tanti altri. Mentre Vito si accinge a raggiungere la caserma, nota vicino allo stabile una persona che si guarda intorno con fare sospetto. "Sembrava una donna - rivela Tocci - appena usciti dalla caserma abbiamo fatto un giro dell’isolato, ma questa persona non c’era più, non siamo riusciti più a vederla".
L'agguato
Dopo essersi diretti verso la statale per raggiungere un altro collega, la centrale comunica a Tocci e al suo equipaggio di recarsi alla stazione di Rimini per un intervento. La Fiat Ritmo sulla quale viaggiavano si avvia verso la stazione e, poco dopo, in località Marebello a circa 50 metri da un cavalcavia, iniziano ad arrivare i primi colpi. Un boato fortissimo, il lunotto posteriore va in frantumi, Tocci capisce subito: è un agguato e ordina immediatamente al carabiniere, che è alla guida dell'auto, di accelerare e di eseguire alcune manovre che, di fatto, li hanno portati in salvo, mettendo l’auto fuori dall’area di tiro dei criminali.
Le pallottole di un fucile a canne mozze si erano conficcate ovunque. Nel poggiatesta dell’auto, scongiurando il peggio e nel corpo dei tre militari.
“Appena ho lanciato l'allarme via radio alla centrale – rivela Tocci al Giornale.it – l’auto con i sicari si è dileguata. Noi ci siamo portati sul lungomare per cercare di capire chi fossero, li avrei affrontati, ma i colleghi e anche io, eravamo feriti, quindi ci siamo recati in ospedale”.
Per Tocci, così come per altri famigliari delle vittime, alla base di questi agguati vi era la volontà di uccidere. Subito dopo l’agguato arriva la rivendicazione di un gruppo terroristico che si faceva chiamare "Falange Armata" ma per Tocci, si trattava di un subdolo tentativo di depistaggio, infatti le perizie balistiche hanno in seguito stabilito che si trattava delle stesse armi con le quali la banda della Uno bianca aveva già commesso altri agguati, compreso quello del Pilastro.
Emilia Romagna nel terrore
Numeri sconvolgenti quelli provenienti da bilancio dell’attività della banda criminale: 103 crimini, 102 feriti e 24 morti di cui 5 carabinieri. “Le vittime le ricordo tutte, le ho conosciute, le porterò sempre con me – dice Tocci -. Questa banda criminale ha sconvolto per anni l’Emilia Romagna. La gente aveva paura, si nascondeva nei campi Rom”.
Eppure per Tocci, così come per altri famigliari delle vittime come Ludovico Mitilini, fratello del carabiniere Mauro, qualcosa non torna e ci sarebbero contorni poco chiari nella vicenda, motivo per il quale è stata chiesta la riapertura delle indagini.
“Io, così come altri, sono convinto che non tutti i responsabili abbiano pagato – dice Tocci –. Il minimo dovuto alle vittime è che si cerchi la verità fino in fondo”.
I sopravvissuti
Vito Tocci, insieme ad altre vittime sopravvissute come la poliziotta Ada Di Campi, è stato fondatore e presidente dell’associazione “Vittime della Uno bianca”, oggi presieduta da Rosanna Zecchi.
Vito Tocci, dopo quell’agguato, è rimasto nell’Arma altri otto anni, poi è stato riformato in seguito alle invalidanti conseguenze dei quattro proiettili ancora presenti nella sua schiena, ma continua, come può, a portare ovunque la sua storia e la sua testimonianza.
Lo status di vittima
Riconosciuto lo status di vittima del terrorismo, Tocci ha ricevuto dallo Stato quanto previsto in questi casi, lamenta però un abbandono da parte della giustizia, nel momento in cui vengono riconosciuti permessi premio, come nel caso di quello ottenuto a Natale da Alberto Savi, ex agente di polizia e fratello minore dei leader della banda.
“Non si sono mai pentiti. Non hanno mai chiesto scusa. Non mi sembra giusto – dice Tocci – che vengano concessi loro permessi premio su richiesta, mentre io, vittima se chiedo qualcosa al Ministero mi tocca aspettare non so quanto”.
Vito Tocci soffre ancora oggi di un dolore non solo fisico, ma soprattutto psicologico: “Da quel giorno la mia vita è cambiata – ha
detto – non ho potuto più fare nulla. Sono distrutto fisicamente e psicologicamente perché l’agguato non mi è stato teso da un capo cosca o da un pusher. L’agguato mi è stato teso da colleghi e questo mi ha ferito due volte”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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