Scena del crimine

Il "fatal pediluvio" che infiammò la politica: i misteri della morte di Wilma Montesi

Dal "pediluvio fatale" allo scandalo politico. Chi uccise Wilma Montesi e perché? I misteri del caso che ha appassionato l'opinione pubblica italiana degli anni Cinquanta

Il "fatal pediluvio" che infiammò la politica: i misteri della morte di Wilma Montesi

Erano gli anni Cinquanta. In Italia qualche anno prima la Monarchia aveva lasciato il posto alla Repubblica, facendo sedere al governo la Democrazia Cristiana. E nel 1953 scoppiò il caso Montesi, che da semplice incidente si trasformò in poco tempo nello scandalo del secolo, scatenando una bufera politica e facendo vacillare la solidità dell'esecutivo. Tutto iniziò con il corpo di una ragazza rinvenuto sulla spiaggia di Torvaianica, a 20 chilometri da Ostia: da allora fu un susseguirsi di ipotesi, dall'incidente all'omicidio, che sollevarono domande e misteri ancora oggi rimasti irrisolti. Si trattò del primo caso di cronaca mediatico, in cui la stampa e l'opinione pubblica ebbero un ruolo fondamentale, e che in poco tempo si trasformò da una semplice vicenda di cronaca allo scandalo politico più importante agli albori dell'Italia repubblicana.

Chi era Wilma Montesi?

Il 9 aprile del 1953 Wilma Montesi, una ragazza di 21 anni residente a Roma dove viveva insieme alla famiglia, scomparve. Wilma era fidanzata e si sarebbe dovuta sposare con un sottufficiale di polizia in quel momento in servizio a Potenza. Quel pomeriggio la madre e la sorella erano andate al cinema, ma la ragazza aveva preferito restare a casa. Al loro ritorno però le due donne non la trovarono e nemmeno quella sera Wilma tornò a casa. Così intorno alle 20.30 il padre decise di andare a cercarla, prima negli ospedali e poi sul lungotevere ma, non trovandola, alle 22.30 si presentò in commissariato per denunciare la scomparsa della figlia. Passarono due giorni, senza avere alcuna notizia di Wilma.

Sabato 11 aprile alle 7.30 del mattino il manovale Fortunato Bettini si accorse di qualcosa che giaceva sulla spiaggia di Torvaianica, a 20 chilometri da Ostia: una volta avvicinatosi capì che si trattava del corpo di una ragazza e corse al più vicino commissariato delle forze dell'ordine, quello della guardia di finanza. I finanzieri contattarono i carabinieri di Pratica di Mare che giunsero sul luogo. Lì trovarono il corpo della ragazza, stesa a faccia in giù parallela alla riva, con la fonte appoggiata alla sabbia, il braccio destro piegato verso l'alto e il sinistro disteso lungo il corpo. La giovane donna aveva indosso una sottoveste, un maglioncino e una giacca abbottonata al collo, con le maniche non infilate, mentre non furono ritrovate le scarpe, le calze, la gonna e il reggicalze. I risultati del medico medico legale parlarono di una morte per annegamento, avvenuta al più tardi la mattina del 10 aprile, e la polizia iniziò a indagare per cercare di capire a cosa fosse dovuta la triste sorte di Wilma Montesi.

Il "pediluvio fatale"

La portiera del palazzo in cui Wilma abitava disse di averla vista uscire di casa quel 9 aprile, intorno alle 17.20. Contrariamente a quanto faceva di solito, quel giorno la ragazza non indossò la collana di perle e gli orecchini, che vennero ritrovati in casa. Il 13 aprile a casa Montesi arrivò una telefonata: un'impiegata al Ministero della Guerra, Rosa Passarelli, disse di aver visto Wilma sul treno per Ostia delle 17.30. La sorella a quel punto si ricordò che Wilma aveva parlato di voler andare a Ostia per bagnarsi i piedi nel mare e dare così sollievo a un eczema ai talloni che le provocava rossore e fastidio. Anche la padrona di un'edicola vicino a Ostia affermò di riconoscere Wilma nella ragazza che il 9 aprile aveva acquistato una cartolina, che avrebbe scritto e imbucato per Potenza. Nel settembre del 1953 la procura della Repubblica di Roma chiese l'archiviazione del caso: l'ipotesi era che Wilma si fosse recata a Ostia per fare un pediluvio (che i giornali del tempo ribattezzeranno "fatal pediluvio"), ma una volta in mare, avrebbe avuto un malore e perso i sensi, annegando. La ragazza avrebbe lasciato a casa i gioielli per evitare che si rovinassero. Ma se Wilma si trovava a Ostia, come ci finì il suo corpo sulla spiaggia di Torvaianica?

Venne trasportato dal mare, fu la risposta degli inquirenti, che si ricordarono della forte mareggiata del 9 aprile: potrebbe essere stata la corrente a trasportare la salma fino a Torvaianica, per poi depositarla sul bagnasciuga. In dicembre il giudice istruttore accolse la richiesta di archiviazione: Wilma era rimasta vittima di una disgrazia. Ma la vicenda era tutt'altro che chiusa. Alcuni punti infatti sembrarono non tornare nella ricostruzione fatta dagli inquirenti. In primo luogo, gli orari: Rosa Passarelli disse di aver visto Wilma sul treno delle 17.30, ma quella fu all'incirca l'ora in cui la portiera la vide uscire di casa e, date le distanze, la ragazza non avrebbe potuto arrivare alla stazione in tempo per prendere quel treno per Ostia. Inoltre una bambinaia disse di aver visto la 21enne sulla spiaggia di Ostia intorno alle 18: ma anche ammesso che Wilma fosse riuscita a salire sul treno delle 17.30, non sarebbe potuta essere a Ostia alle 18. Un altro mistero fu quello legato ai vestiti: perché la 21enne si è tolta il reggicalze, quando avrebbe potuto sganciare solamente le calze? E poi dove finirono gli altri vestiti? Dubbi anche intorno allo stato del corpo: nonostante i due giorni in mare, sulle unghie di Wilma c'era ancora lo smalto.

Sopralluogo Torvaianica caso Montesi
Sopralluogo del 1957 nella zona di Torvaianica

I sospetti dei giornali

Nel tentativo di dare risposta a questi quesiti, intervennero i giornali, che in breve tempo trasformarono quello che sembrava un banale caso di cronaca, nello "scandalo del secolo". Il 4 maggio del 1953 il giornale napoletano Roma raccontò di fantomatici testimoni che avrebbero visto la vittima in compagnia di un uomo a bordo di una Fiat 1900, che si era arenata nella sabbia davanti alla tenuta di Capocotta, a metà strada tra Ostia e Torvaianica. Ma chi era quello che venne ribattezzato "il biondino della 1900"? Secondo i giornali, si trattava del figlio di un esponente della Democrazia Cristiana, identificato come Piero Piccioni, figlio di Attilio Piccioni, ai tempi ministro degli Esteri.

La notizia venne però smentita dalla questura di Roma: "Da alcuni giorni- si legge sull'Unità - si era diffusa negli ambienti giornalistici della Capitale la notizia che la fanciulla aveva trascorso le sue ultime ore di vita a Ostia, in compagnia del figlio di un alto esponente del partito democratico cristiano. Questa illusione ci è stata ieri smentita dalla questura, la quale, anzi, ha precisato che 'il figlio dell'on. Piccioni è assolutamente estraneo al caso di Wilma Montesi". Ma il 16 maggio il giornale satirico il Merlo Giallo pubblicò una vignetta allusiva, in cui viene raffigurato un piccione che teneva nel becco un reggicalze.

Ma la vera svolta si ebbe nell'ottobre del 1953, quando il mensile Attualità fece rivelazioni sensazionali. Il giornalista Silvano Muto pubblicò un articolo dal titolo "La verità sulla morte di Wilma Montesi", in cui veniva fatta una ricostruzione diversa rispetto alle indagini degli inquirenti. Si parlò di stupefacenti, orge e festini a Capocotta e Muto indicò due persone (nell'articolo chiamate X e Y), che si sarebbero trovate in compagnia della Montesi quando ebbe un malore. Sarebbero state loro a lasciarla sul bagnasciuga, credendola morta. Lì la ragazza sarebbe annegata, respirando acqua e sabbia. Muto venne convocato dalla Procura di Roma e ritrattò: il giornalista venne denunciato per la diffusione di notizie false e tendenziose e finì sotto processo. Ma il giornalista ritrattò nuovamente, facendo i nomi di due testimoni che lo avevano informato: Adriana Concetta Bisaccia e Marianna Moneta Caglio, ribattezzata "il cigno nero" che fece i nomi di Ugo Montagna, il marchese di San Bartolomeo che gestiva una tenuta di caccia a Capocotta, e Piero Piccioni, come si legge sul numero dell'Unità del tempo, che riportò le dichiarazioni della donna al processo.

Scoppia il "caso Montesi"

La testimone raccontò tutta la vicenda in un memoriale affidato ai gesuiti che riuscirono a farlo arrivare fino ad Amintore Fanfani, allora ministro dell'Interno. Fanfani convocò il colonnello dei carabinieri Umberto Pompei e gli affidò un'inchiesta. Ma perché il ministro si rivolse ai carabinieri e non alle forze di polizia? Perché sembra che Montagna avesse conoscenze in quel campo, tanto che saltò fuori anche il nome del capo della polizia Tommaso Pavone che, secondo l'accusa, avrebbe coperto Montagna e Piccioni.

A seguito delle rivelazioni di Marianna Moneta Caglio e dell'indagine di Pompei, il fascicolo Montesi venne riaperto e scoppiò il caso che appassionò l'opinione pubblica fino alla fine degli anni Cinquanta. Nel marzo del 1954 il tribunale di Roma sospese il processo a Silvano Muto e aprì un'istruttoria sulla morte di Wilma Montesi, affidandola al giudice Raffaele Sepe. Il giudice tornò a esaminare gli orari e le testimonianze del giorno della scomparsa della ragazza e percorse la strada tra casa sua e la stazione, per capire l'attendibilità dell'ipotesi del pediluvio. Ma qualcosa non tornava.

Le testimonianze risultarono vaghe: l'impiegata del Ministero avrebbe descritto l'abbigliamento di Wilma in modo diverso rispetto a quello che realmente indossava, la bambinaia non riconobbe con certezza Wilma nella ragazza che aveva visto sulla spiaggia di Ostia e la proprietaria dell'edicola avrebbe riferito di una collana che la ragazza quel giorno non indossava. Inoltre il fidanzato non ricevette nessuna cartolina a Potenza. Anche l'ipotesi dello spostamento del corpo da Ostia a Torvaianica a opera delle correnti marine risultò dubbia, nonostante la mareggiata, perché la salma avrebbe dovuto spostarsi a una velocità di circa un chilometro all'ora. Infine nei polmoni di Wilma venne trovata, insieme all'acqua, anche molta sabbia, segno che la ragazza era annegata in un punto in cui l'acqua era molto bassa. Si tornò così sull'ipotesi del malore e dell'abbandono in spiaggia da parte di chi era con la ragazza.

Montagna e Piccioni si ritrovarono così in mezzo alla bufera. Lo scandalo fu tale che entrò nelle vicende politiche, portando alle dimissioni di Attilio Piccioni che il 19 settembre lasciò la carica di ministro degli Esteri. Due giorni dopo il figlio Piero venne arrestato con l'accusa di omicidio colposo insieme al marchese Montagna. Anche all'ex questore di Roma Saverio Polito venne inviato un mandato di comparizione per depistaggio: secondo l'accusa, Polito avrebbe coperto il vero movente del delitto con l'ipotesi del pediluvio.

Nel giugno del 1955 Piccioni, Montagna e Polito furono rinviati a giudizio e il processo si spostò a Venezia, dove prese il via il 21 gennaio del 1957. Nel frattempo la vicenda giuridica si era trasformata in un caso politico, con il coinvolgimento dei vertici della Democrazia Cristiana: l'immagine del partito infatti ne uscì gravemente danneggiata, tanto che già a fine luglio del 1953 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi non ottenne la fiducia del Parlamento. Ma mentre la politica era sconvolta dal caso Montesi, in aula il processo si sgonfiò. A carico di Piccioni e Montagna non emerse nulla e Polito ribadì la tesi dell'incidente. A sostegno di Piccioni interviene anche l'attrice Alida Valli, sua fidanzata, che confermò l'alibi fornito dall'uomo: Piccioni era ad Amalfi e tornò a Roma nel pomeriggio del 9 aprile 1953 perché aveva la febbre. Una volta tornato sarebbe rimasto a casa, dove venne visitato da un medico che gli rilasciò delle ricette e da diversi amici. I colpi di scena non erano ancora finiti: tre lettere anonime parlarono di contraffazione delle ricette, ma i giudici ritennero che ad aver modificato la data fosse stato lo stesso medico, per correggere un suo errore.

Così il 28 maggio del 1957 tutti gli imputati vennero assolti con formula piena: Piero Piccioni "per non aver commesso il fatto", mentre Ugo Montagna e Saverio Polito "perché il reato non sussiste". Venne però riconosciuto che Wilma fu uccisa e che non morì a causa del pediluvio. Una volta archiviato il processo a Venezia, la procura di Roma tornò a interessarsi all'accusa di calunnia mossa al giornalista Silvano Muto che nel 1964 venne condannato insieme a Marianna Moneta Caglio.

L'affare Montesi segnò profondamente la storia politica dell'Italia degli anni Cinquanta, facendo emergere il ruolo di primo piano dell'opinione pubblica, desiderosa di trovare le risposte alle domande che resero oscura la morte di una ragazza di soli 21 anni. Un caso di cronaca che dominò quotidianamente l'attenzione del Paese e che ebbe effetti disastrosi sulla politica del tempo.

Ma nonostante l'interesse mediatico e giudiziario, la morte di Wilma Montesi rimane ancora oggi priva di risposte e, a distanza di quasi 70 anni, il mistero rimane irrisolto.

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