Ottantasette giorni di carcere. Inutile. Quasi tre mesi, di indagini forsennate a caccia dei tasselli mancanti. Che non si sono trovati. Un’intera estate trascorsa sperando che il «mostro» confessasse. Niente.
Da quel 16 giugno, data dell’arresto del muratore Massimo Bossetti, il «cattivo dagli occhi di ghiaccio», frettolosamente bollato dal Ministro Alfano come «il killer di Yara», nulla è cambiato. Perlomeno nel quadro indiziario. Lui, da dietro le sbarre, si ostina a giurare di non essere l’assassino, di non aver mai conosciuto quell’adolescente sparita nel nulla mentre usciva dalla palestra di Brembate. Continua a implorare di essere sottoposto alla macchina della verità. Peccato non abbia- anche qualora gli venisse concessa- valore probatorio. Dall’altra parte la procura di Bergamo, con la pm Letizia Ruggeri che dopo tre anni di indagini e centinaia di migliaia d’euro spesi, è convinta di avere in mano il Dna dell’assassino. Ovvero quello di Bossetti. Lo incastra una macchiolina di sangue trovata sui leggins della vittima. Come si sia arrivati a stabilire che quella traccia fosse proprio del quarantaquattrenne di Mapello, sposato e padre di tre figli, è storia tanto nota quanto degna di una sciarada. Un rebus che comunque vada a finire rischia di rimanere tale per sempre. Di certo resteranno le macerie di vite distrutte. Scaravoltate, frugate e date in pasto al pubblico. In attesa di processo. E in attesa di quel giorno Massimo Bossetti è tutt’oggi rinchiuso in isolamento a Gleno. Eppure, a rigor di logica, i presupposti per tenerlo lì, non sembrerebbero esserci: chi può davvero credere che possa sussitere il pericolo di fuga? (avrebbe avuto tre anni di tempo per andarsene); di reiterazione del reato (idem come sopra), tantomeno la possibilità di inquinamento delle prove. E poi, quali?
Ripercorrendo proprio le motivazioni con cui la procura aveva fatto ammanettare il muratore di Mapello, ieri i suoi avvocati difensori, Claudio Salvagni e Silvia Gazzetti, hanno deciso di chiederne la liberazione. Depositando quaranta pagine di «controdeduzioni» al giudice Ezia Maccora, lo stesso gip che in giugno aveva ravvisato la necessità di custodia cautelare per l’indagato. Da una rilettura «critica» delle prove acquisite dall’accusa, secondo i legali, non vi sarebbero gravi indizi di colpevolezza per continuare a tenere dietro le sbarre Bossetti. Nel frattempo chiederanno anche la ripetizione dell’esame del Dna.
«Massimo Giuseppe Bossetti deve essere scarcerato perché è innocente», ripetono i suoi legali. Che confutano passo dopo passo quegli indizi determinanti invece per l’accusa.
A cominciare dagli agganci alle celle telefoniche dei cellulari di Yara e del suo presunto carnefice. Ci sarebbe almeno un’ora di scarto tra le tempistiche dei rispettivi movimenti. Non solo: l’apparecchio di Massimo Bossetti avrebbe potuto agganciare la cella di Brembate anche se lui si fosse trovato a casa a Mapello o anche nel raggio di 8 chilometri. Lo smistamento a una o all’altra dipende dal traffico telefonico.
Punto secondo, la calce che sarebbe stata trovata nei polmoni della tredicenne. Per l’accusa una prova contro il muratore. Per la difesa tutt’altro. Anche il papà di Yara, Fulvio Gambirasio, geometra, lavorava nei cantieri, la vittima avrebbe potuto, dunque, facilmente inalare polvere nei contatti con il genitore.
Infine, ma non ultimo, il racconto di Natan, uno dei fratelli di Yara.
Oggi ha 13 anni. Ai carabinieri raccontò che la sorella gli aveva confidata di aver paura di un uomo, che lei glielo avesse addirittura indicato in chiesa: era alto, grassoccio e con la barbetta. L’esatto contrario di Bossetti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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