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La crudeltà della storia dietro il sorriso di una baby mamma

Ricevo da un amico
In coda alla cassa del supermercato incontro una giovanissima donna col velo. Spinge il carrello e una carrozzina blu con un bimbo di pochi mesi. Elegante nel suo vaporoso abito verde smeraldo, ha scelto ogni accessorio con gusto, in modo che i colori paiono cantare insieme. Ci guardiamo in cerca di una conferma. Non oso rivolgerle per primo la parola. Se mi sbagliassi sarebbe una gaffe imperdonabile. Un estraneo che rivolge parola a una donna pakistana sposata potrebbe essere ritenuto sconveniente da qualche suo conterraneo lì presente.
«Professore!». Sì. È lei: una ex allieva dell’anno scorso. La ricordo perfettamente a scuola: vivace e sempre sorridente, attenta, ordinata, impegnata. Una delle migliori allieve della sua classe. Per questo all’esame di terza media meritava un 8 senza regali, ma noi insegnanti preferimmo darle 9 perché ci piaceva guardare avanti. Sapevamo che la famiglia difficilmente avrebbe investito sui suoi studi e volevamo invece far capire che sarebbe stato un bene per tutti se avesse potuto proseguire. Maryam avrebbe potuto diventare un ottimo dottore o un eccellente avvocato. «Di chi è questo bel bambino?». «È mio!», risponde con dolce prontezza mescolando orgoglio, pudore e persino timore del mio possibile stupore. Sono già pronto. Non la deluderò. Solo parole di festa e complimenti, come è giusto e doveroso davanti al dono della vita. «Appena finita la scuola media i miei genitori mi hanno fatto tornare in Pakistan e mi hanno fatto sposare». Lo dice col suo solito sorriso sicuro. Ora è donna. Ora è mamma, a 14 anni.
«Mi hanno fatto». Tre parole che non volevo sentire ma che accetto perché le rivoluzioni più vere e profonde iniziano sempre con un «sì» piuttosto che con un «no». Forse anche la Madonna aveva 14 anni quando andò sposa. Credo che prese marito per obbedienza e non per libero amore. A Maryam non serve la ribellione: serve la forza della grande donna che ha dentro di sé. Nella nostra scuola ha imparato a conoscere parole come giustizia, eguaglianza, libertà, diritto. Non sarà più come prima. Ha accettato, ma non chinerà la testa per sempre, me lo dicono quei suoi occhi orgogliosi e consapevoli.
Un passo alla volta. Le chiedo: «Ora resti in Italia?». «Sì», risponde senza esitazione. Suo fratello entrerà in prima media l’anno prossimo. Mi spiega dove abita e la invito a venirci a trovare a scuola. Il suo bambino è un nuovo italiano. Ha una mamma nuova. Una mamma che non si vergogna di essere donna e che sa quanto vale. Sono le mamme che cambiano la storia».
Brescia

Caro anonimo professore (e cara signora Mucci), la sua lettera è, come direbbero i francesi, un «tranche de vie» agrodolce. Dove l’agro, ovviamente, è dato da tre parole pronunciate dalla signora Maryam: «Mi hanno fatto».

Parole dietro le quali probabilmente si cela una coercizione, l’imposizione di una volontà che difficilmente una ragazzina può accettare con il sorriso sulle labbra. È vero, come dice lei, «sono le mamme che cambiano la storia». Ma troppo spesso la storia con le mamme è crudele. Si chiamino Maria o Maryam.

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