All’ingresso del Galeone uomini in divisa mi danno il loro serio benvenuto, Harrods non è luogo di frivolezze, Harrods è un tempio, perciò, amici, mi raccomando, comportatevi in modo conveniente al luogo: non sbraitate, niente abiti troppo corti o provocanti e se possibile non state a braccia scoperte.
Ma gli ingressi sono undici, ed è inevitabile trovarsi subito in medias res, in un punto qualunque della grande cattedrale. Navata sinistra, destra, centrale, ingresso in fondo, di lato, transetto, ciborio, abside. Io per esempio sono entrato, del tutto casualmente, dalla parte delle occasioni, sconti, saldi. Pile di prodotti, piramidi, coni ciascuno formato da un solo articolo ripetuto centinaia di volte, come nei cartoni animati di Tom & Jerry, accompagnato da centinaia di cartellini tutti uguali con il logo di Harrods, il vecchio prezzo cancellato, il prezzo nuovo. Qui non si contratta, la borsa si è chiusa, questi i risultati.
Il soffitto è a volta, siamo in una sala minore, in uno scantinato, e il pavimento è di graniglia – segno che in questa sala (ma non sarà dappertutto così) – si tengono i piedi per terra, tutta sostanza niente fronzoli. È un salone sbrigativo, dedicato agli amici, a chi non si formalizza. Ma proprio la sua informalità promette – è sufficiente sbirciare negli altri saloni – sfarzo e formalità a non finire, così come la buona parola e la pacca sulla spalla del confessore non possono far dimenticare, e anzi aiutano a ricordare meglio, quanto è terribile Dio.
Mi rendo conto di trovarmi ancora nei saloni marginali del tempio. Prima però di addentrarmi verso l’altare più barocco che si sia mai visto decido di trattenermi ancora un po’ nei cerchi esterni. Profumi d’occasione, borse femminili d’occasione, lifestyle beauty, accessori d’occasione, occhiali da sole, scarpe da uomo.
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Sento che, qui, stiamo toccando qualcosa di simile a un cuore. Mi trovo nell’imbuto delle scale mobili, quello più liberty, e come il simulacro del santo aveva annunciato – i santi non mentono mai – ecco lì, sul mezzanino, la statua in bronzo di Diana e Dodi. In equilibrio su un piede solo, simili a una coppia di pattinaggio artistico in mezzo al viavai degli acquirenti, al salire e scendere delle scale e all’allegro dixieland che, a tutto volume, asseconda le morbidezze di queste architetture, i due innamorati si protendono in avanti, levando lei la mano sinistra e lui la destra a liberare, unite, il volo di un gabbiano, e intanto la sinistra di lui e la destra di lei si sfiorano dietro la schiena. Gli innamorati si guardano teneramente negli occhi, mentre sul bordo del piedestallo a base rotonda su cui poggiano si legge una frase che è un giudizio anche politico: «Innocent victims». Papà Mohamed insomma sembra non nutrire dubbi: Dodi e Diana furono assassinati.
La collocazione della statua è nel più sereno, solare dei vani scale mobili del grande store, tutto toni crema e linee tondeggianti – ben diverso dal locale più monumentale e spettacolare, quello egizio, vero show tecno-faraonico, perfetto connubio verde e dorato tra antico Egitto e Giappone postmoderno. Qui viceversa tutto è leggerezza, innocenza e morbidezza, ed è qui che, nonostante la nazionalità egiziana, Dodi ha voluto essere ricordato.
Del resto, al centro di tutto c’è lei, Diana. Il corpo di Diana. La principessa appare vestita con una tunica leggera che aderisce al corpo nudo facendone risaltare tutte le curvature, lecite e illecite. La postura allungata permette un esame abbastanza dettagliato di alture e avvallamenti per un apprezzamento adeguato del paesaggio nel suo complesso. Questa donna sfortunata, ritratta pressoché nuda in compagnia del suo sfortunato amante, è la madre di colui – William – che salirà, a Dio piacendo, sul trono d’Inghilterra, ultima teocrazia d’Occidente, acquistando un prestigio che nessun essere umano sulla terra, tranne il papa, può vantare.
E la madre del principino, eccola qui, innamorata e adultera, corpo di desiderio, che il bronzo non ferma, non immobilizza, prolungando negli anni il desiderio di cui la fece oggetto una buona metà degli eterosessuali di tutto il mondo. Romantica e porca, generosa e puttana, lurida ed eroica, buona fino all’irritazione, Diana è, come Enrico VIII ed Elisabetta I, l’Inghilterra stessa, è un corpo che accende ogni singolo cuore, ogni singola singolarità umana, è come i vascelli, i clipper che trasportavano necessità, lusso e vizio nella stessa stiva; è inglese come le porcellane inglesi, inglese come solo gli egiziani, come solo gli indiani, come solo gli albanesi possono essere, perché l’Inghilterra non è un’etnia ma un’antropologia, una monarchia ma anche la più partecipativa delle democrazie. Diana è Shakespeare, che tesse un’oscura, vegetale, acquatica relazione tra la viziosa madre di Amleto, Gertrude, e la povera sfortunata tradita e gravida Ofelia, giungendo ad affidare alla prima (l’Inaffidabile per eccellenza, colei che nega ogni evidenza) il racconto ahimè veritiero della fine della seconda.
L’universalità del corpo di Diana ne fa, proprio in questa rappresentazione che il bon ton continentale trova così sconveniente, una vera madre di re. Non regina, ma madre di re. Questo è il suo posto, il posto assegnatole dalle streghe che vegliano su questa terra, come lo assegnarono a Banquo nel Macbeth, quando – morto – torna alla cena regale ad annunciare sangue senza fine. E come accade a re Amleto, che dall’inferno torna ad ammonire il figlio.
Anche il corpo di bronzo di Diana reclama, nella sua condizione adulterina, il diritto alla legittimità proprio di una madre. Spogliatela del prestigio, toglietele ogni ruolo ufficiale, respingetela tra i mortali, e soprattutto niente reggiseno e mutande, perché lei è mortale. Ma come Eva, madre di tutti i viventi, resterà madre, genitrice mortale di uomini, di re mortali.
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