"La cultura dei ribellocrati è come le sabbie mobili"

Il filosofo francese: «Gli intellettuali dominanti fingono di essere dalla parte dei dominati»

"La cultura dei ribellocrati è come le sabbie mobili"

Alessandro Gnocchi

nostro inviato a Verona

P er capire i tempi che viviamo, leggere il filosofo francese Alain Finkielkraut, accademico di Francia, è indispensabile. Pochi, forse nessuno, tranne Michel Houellebecq nella narrativa, hanno colpito al cuore la modernità, mettendone a nudo i difetti e le ipocrisie. Ha contestato il primato della tecnica, l'identità infelice dell'Europa, il conformismo degli intellettuali politicamente corretti. Lo fa con le ragioni del pensiero libero, della poesia, della bellezza. Abbiamo incontrato il filosofo a Verona, in occasione della consegna del Premio Grosso d'Oro Veneziano assegnato dalla Fondazione Masi. In Francia è appena uscita la sua autobiografia intellettuale, À la première personne (Gallimard), dal 1968 a oggi. Martin Heidegger, Georges Bernanos, Charles Péguy, Hannah Arendt, Emmanuel Lévinas sono le «fonti» più utilizzate da Finkielkraut. Ebreo, nato a Parigi nel 1949 da immigrati polacchi, il filosofo concentra la sua analisi sulla crisi della cultura europea: «Mi sono prodigato per dare un senso al mio lavoro al fine di affrontare la realtà così come essa è e per rimanere lucido senza farmi mai intimidire dal politically correct. Credo che solo attraverso l'esercizio della lucidità sia possibile mantenere una pace permanente tra i paesi europei». Oggetto di insulti antisemiti da parte di una frangia dei gilet gialli, alla consegna del premio dice che «il vero razzismo, oggi, parla la lingua dell'antirazzismo ed è una manifestazione del politicamente corretto. Un esempio grave. Israele è accusato di razzismo nei confronti dei palestinesi: e questa accusa sdogana l'antisemitismo. In certi quartieri delle città francesi, gli ebrei non sono graditi dalle comunità musulmane e sono indotti a traslocare».

All'immigrazione di massa e al fanatismo islamico l'Europa risponde con il nichilismo egualitario. Cos'è?

«Ci sono parecchie definizioni di nichilismo. La prima è la più conosciuta e viene da Dostoevskij. La espone Ivan Karamazov nei Fratelli Karamazov: Se Dio non esiste, tutto è permesso. La seconda definizione nasce da alcuni sviluppi delle tecnoscienze: Tutto è possibile. La terza definizione è figlia delle folli idee di uguaglianza della nostra epoca: Tutto ha lo stesso valore, tutto è equivalente, tutto è uguale. Se tutto è uguale non possiamo sostenere il primato della Cultura sulla cultura di massa. E non possiamo sostenere il primato, in Europa, della cultura europea. Questo nichilismo, combattuto da Papa Benedetto XVI, sembra essere fonte di soddisfazione per Papa Francesco. Oggi è il punto di vista prevalente nel Vecchio continente».

Nell'imporre questo nichilismo egualitario, hanno un ruolo fondamentale i reduci della contestazione sessantottina?

«Sì, hanno un ruolo fondamentale i cosiddetti ribellocrati. L'espressione è stata coniata dallo scrittore Philippe Muray, l'autore de L'impero del bene, che si rese conto di un fatto: i rappresentanti dell'ideologia dominante conservano la certezza di combattere per i dominati. Hanno il potere, ma dicono di esserne al di fuori. Questa è una cosa comica».

La comunicazione si è fatta sempre più triviale, la scuola vacilla, lei insiste molto sul concetto di «deculturazione». Cosa significa questa espressione?

«La cultura si è dissolta nel tutto-culturale: un calderone pop che abolisce le gerarchie. Il barone di Münchhausen era convinto di salvarsi dalle sabbie mobili afferrando i propri capelli e cercando di tirarsi fuori. L'umanesimo europeo denunciava questa illusione soggettiva. Grazie alla presenza delle opere d'arte, di ogni tipo, si entrava in contatto con se stessi e con il mondo. Il problema è che oggi la cultura è la sabbia mobile, dunque non abbiamo più nulla per tirarci fuori. Se non ci svegliamo, la massa informe del tutto-culturale ci condurrà alla deculturazione: la scuola stessa ha deposto le armi e si è piegata alle mode, invece di trasmettere le tradizioni culturali».

Bernanos diceva che è inutile avere un vocabolario ampio per esprimere una visione sommaria della vita... Che influenza ha la Rete in questo processo di deculturazione?

«Per capire la Rete, e il suo impatto sulla comunicazione e sulla cultura, dobbiamo tornare a Heidegger. Noi viviamo nell'era della tecnica, e la tecnica non è solo questione di macchine e motori ma è un modo attraverso il quale ci viene svelato il mondo. Vivere nell'era della tecnica significa essere sfruttabili, malleabili, intercambiabili. Tutto deve essere funzionale: noi e la lingua che parliamo. Proprio perché abbiamo questo rapporto con la tecnica, abbandoniamo le nostre lingue nazionali e lasciamo che siano invase non dall'inglese ma dal globish. Una lingua semplificata, di poche parole modellate sull'inglese, che tende a diventare universale. L'impoverimento culturale è evidente».

Il multiculturalismo non ci ha dato nulla?

«Oggi il mondo si degusta alla carta. Il mondo del cosiddetto meticciato universale si rivela un gigantesco supermercato. Tutto ciò che aveva impresso il timbro dell'altrove è disponibile qui e ora: tutti i sapori, tutti i prodotti, tutte le musiche. Questo girovagare goloso tra gli scaffali dovrebbe essere la vittoria del nomadismo sullo sciovinismo. Ma è solo mettere il sigillo dell'ideale alla società delle merci».

Anche il sesso è parte di questo processo?

«Cos'è la teoria del genere se non l'aspirazione a ridurre il dato di fatto, la parte dell'esistenza che non possiamo scegliere, il sesso, a una opzione tra le altre?».

In queste settimane si parla solo di ambientalismo catastrofista. È una forma di Amor mundi, amore del mondo, di cui lei scrive nell'ultimo libro, o una sua distorsione?

«È difficile non essere catastrofisti, davanti al comportamento della Terra, alla sparizione delle risorse, all'estinzione perfino degli insetti, alle prassi di allevamento in batteria.

Ma la catastrofe diventa ancora più grave se noi adulti pretendiamo di affidare le sorti del pianeta ai ragazzi. Abbiamo già visto in azione le Guardie rosse, non abbiamo bisogno di quelle verdi. Non dobbiamo affidare il nostro destino a chi è troppo giovane».

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