Domani al Circolo dei Lettori di Torino, nell'ambito del festival «La Milanesiana», ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi, apre la mostra di Luigi Serafini Codex Seraphinianus anno XXXIII: a 33 anni dalla realizzazione della celebre opera, vengono esposti le tavole originali del Codex, un atlante di mondi impossibili che riscrive il confine tra arte visiva e scrittura. Qui pubblichiamo il testo che Vittorio ha scritto in occasione della mostra (aperta fino al 10 luglio).
È difficile credere che siano passati più di trent'anni dall'apparizione del Codex Seraphinianus, un'opera sconvolgente, soprattutto per chi, come me, la conosce dalle sue origini, e ne ha subito riconosciuto l'assoluta novità, di cui non si è avuta perfetta coscienza.
L'opera si presentò da sola, come concepita per un Principe rinascimentale, prima e indipendente dal suo autore. Fu, nel 1981, a casa del suo editore, Franco Maria Ricci. Il giovane editore iniziava allora un'impresa monumentale, sotto ilo titolo FMR: non un libro, ma una rivista d'arte, senza limiti e confini.
Nel suo peregrinare aveva incrociato a Roma un architetto silenzioso e stralunato, che stava inventando un nuovo mondo, una vera e propria «scoperta». Una doppia scoperta. Ricci «scopriva» lo scopritore del nuovo mondo, Cristoforo Colombo del labirinto del pensiero, impegnato a illustrarlo in tavole disegnate di inesauribile fantasia.
Nel suo studiolo, poco lontano da Piazza di Spagna, Luigi Serafini esplorava gli angoli sperduti di quelle terre ritrovate, illustrandone la flora, la fauna, i pesci, le architetture, l'orografia, le varietà della natura, l'organizzazione della società. Ogni immagine era accompagnata da testi e didascalie in una lingua inventata, in geroglifici per i quali Serafini aveva predisposto una Stele di Rosetta per favorirne l'interpretazione. Un virtuosismo, dal momento che tutto era già chiaro nella minuziosa forza descrittiva delle immagini.
Pensando ai grandi miniatori del Medioevo e del Rinascimento, ferraresi, cremonesi, padovani e anche fiorentini, senesi e ai loro codici di irrefrenabile fantasia, Franco mostrava i fogli di Luigi con eccitazione e sorpresa, trasmettendo l'entusiasmo che le immagini gli procuravano. Eravamo davanti a un miracolo che non temeva il confronto con le portentose meraviglie dei grandi miniatori. Serafini non finiva di stupire per le invenzioni, e anche per la straordinaria perfezione calligrafica e quasi la perversione del disegno. Ciò che, nell'arco di tre anni, Serafini aveva elaborato, era un vero e proprio codice miniato, una enciclopedia nel senso ambivalente della illustrazione e della Encyclopédie illuministica. E Ricci ne era l'editore, sia nella prospettiva del libro prezioso, sia nell'intendimento pedagogico della moderna tradizione francese. Il dotto e il curioso convivevano nel suo euforico progetto.
La soddisfazione era anche nel rivelare al mondo una così prodigiosa impresa, che, nella sensibilità contemporanea, rappresentava l'avventura più fantasiosa dopo De Chirico, Savinio e i surrealisti.
La scoperta si insinuava in una linea editoriale nella quale le curiosità enciclopediche erano presidiate e moltiplicate da spiriti universali e curiosi come Jorge Luis Borges, Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Giovanni Mariotti, Gianni Guadalupi, Julio Cortazar, Roland Barthes, Claudio Rugafiori.
A questi autori, e anche a me, era affidata gran parte della novità di FMR, e Luigi Serafini era l'unico artista contemporaneo ammesso tra le meraviglie di un passato inesauribile. Ognuno di noi, da Calvino a Umberto Eco, lo osservava con stupore e ammirazione vedendo squadernarsi davanti agli occhi un mondo mai prima visto. E a me fu chiesto di scriverne per una mostra dei suoi fogli in Palazzo Grassi a Venezia, tra il 1982 e l'83. Ne scrissi senza conoscere l'autore, cercando di risalire alle sue letture a anche al repertorio di oggetti del suo studio, nel tentativo di fornire un identikit prima artistico e poi umano.
Quando poi conobbi Serafini, egli mi manifestò a sua volta stupore perché avevo descritto il suo studio, bicicletta compresa, senza averlo visto, indicando anche alcuni libri che gli erano particolarmente cari. Ne nacque un'amicizia che s'incrinò soltanto quando, dopo avere, ogni due anni, per quasi un trentennio lamentato la sua assenza alla Biennale di Venezia, mi toccò finalmente d'invitarlo nel 2011, nominato dal Governo Commissario del Padiglione Italia. Lui non intese il riscatto, ma l'ipoteca governativa (come dire, per lui, di regime), e in un primo momento rifiutò l'invito destando la mia ira furibonda. Non durò troppo, giacché io ammisi, tra le opere, la sua innocua provocazione contro Silvio Berlusconi neutralizzando la sua infantile polemica. Dopo trent'anni, finalmente, Serafini, artista meraviglioso, era arrivato alla Biennale.
Nel frattempo il suo Codex, parzialmente esposto ora a Torino, non è invecchiato e ha corso il mondo in volumi preziosi e in diverse edizioni dopo la prima di Franco Maria Ricci. E anche in quella originaria, formidabile occasione, Serafini trovò in me un tutore e un garante, giacché dissuasi l'editore a stampare le sue tavole, pur con assoluta fedeltà riproduttiva, su carta azzurra, per un vezzo ottocentesco.
© Vittorio Sgarbi, 2014
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