Cultura e Spettacoli

Il vero intellettuale? Quello "provinciale"

In Dante la cronaca del suo tempo diventa una via originale che conduce all'universalità. È il percorso opposto rispetto a quello dell'arcaico Pasolini

Il vero intellettuale? Quello "provinciale"

Ma un intellettuale come deve comportarsi di questi tempi? Come si muove è fulminato, e se non si muove è fulminato lo stesso, accusato per il suo superbo letargo e la sua immacolata estraneità («non vuole sporcarsi»). Se scende in campo è servo del Capo o del Partito, se non scende in campo è fossile o disfattista. Se sceglie il male minore ed esprime una relativa e provvisoria preferenza, è accusato di opportunismo. Se condanna s'atteggia a profeta, ma è solo un depresso o un frustrato che trasferisce in politica i suoi problemi intestinali. In realtà è l'intellettuale in sé che non viene accettato, sempre fuori posto, fuori tempo, fuori dalla realtà.
Prendete un intellettuale di destra, se ci riuscite; ma è uno sport un po' più originale di prendere il solito intellettuale di sinistra. Come deve comportarsi in questa situazione? Non si sente rappresentato da nessuno e da nessuna parte, ma non può friggere nel suo olio santo e imboscarsi in altre epoche, altri saperi e altri linguaggi. Coltiverà un giudizio sul suo tempo, dovrà pur attraversarlo anche solo per raggiungere la torre d'avorio, il bosco o la navicella spaziale con cui allontanarsi. E non può semplicemente disfarsi del presente e dei contemporanei. Poi, certo, deve pur vivere, nutrirsi, avere i mezzi per poter leggere, scrivere, pensare, studiare. E allora che fa? Nessuno è disposto a ospitare, pur senza condividerle, le sue idee e le sue opinioni spesso sgradevoli ai poteri dominanti, non conformi ai codici dei media. Non lo ospita chi dà spazio solo al futile e nemmeno chi pensa che l'unica realtà sia l'economia o l'hi-tech e il resto è fuffa o «arte di menare il torrone». Allora a lui tocca l'esilio, la marginalità per gli uni e l'emarginazione degli altri, o la doppia veste, cioè la doppia cittadinanza in un Paese ufficiale e in una patria reale. Per lui c'è un problema aggiuntivo: quelli che gli sono in apparenza vicini lo guardano spesso come un marziano o come un radical deviato (è un intellettuale, che ci fa da queste parti?). Vive dunque l'ostilità dei nemici e la diffidenza degli amici. In cambio ha il vantaggio che dalle sue parti è irrilevante la cultura e dunque passa inosservata: così ha meno controlli, meno censure, meno commissari del partito che gli rinfacciano di non allinearsi. Ai tempi di Togliatti si diceva: «Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia». A lui non lo dicono perché nemmeno si accorgono di quel che pensa.
Di processi agli intellettuali è ricca la storia intellettuale e politica del nostro Paese. Tra questi, merita attenzione Dimenticare Pasolini di Pierpaolo Antonello, dedicato agli intellettuali e l'impegno nell'Italia d'oggi (Mimesis, pagg. 164, euro 16). Perché merita attenzione? Perché è una sferzata salutare agli intellettuali oracolari, anche se nasce da un paragone, a mio parere improprio, fra gli intellettuali italiani e gli intellettuali inglesi (Antonello, del resto, insegna letteratura italiana a Cambridge). Non si può vivere la storia del proprio Paese come un'anomalia rispetto ad un altro Paese elevato a paradigma. Ciascuno ha la sua storia. Gli intellettuali del nostro Paese hanno avuto miserie e nobiltà, non solo bassezze. Non ci sono solo gli intellettuali organici, ci sono anche Dante e Petrarca, Bruno e Campanella, Machiavelli e Vico, gli intellettuali risorgimentali, Gentile e Gobetti, Croce e Prezzolini, Giaime Pintor e Berto Ricci. L'intellettuale italiano non è stato solo servile o allineato, fazioso e retrivo, ma ha prodotto anche grandi idee e grandi movimenti; e talvolta perfino nella piaggeria ha avuto grandezza (si pensi a Virgilio e a tanti grandi artisti). Il provincialismo dei nostri intellettuali non è stato poi solo una maledizione ma anche una ricchezza e una via originale all'universalità: il poema della letteratura italiana, la Divina Commedia, è un capolavoro di provincia che si fa universale, è cronaca del proprio tempo che diventa cronaca di ogni tempo.
Ma il modello da cancellare, come dice già nel titolo il testo di Antonello, è Pasolini. Il suo arcaismo che nega la modernità, la sua sacralità preistorica e precristiana che lo separa dai flussi del presente. L'errore, a mio parere, è stato scambiare un poeta per un profeta e un sociologo, e fondare sulla nostalgia - che è uno straordinario sentimento affettivo e poetico - una proposta ideologica e politica. La nostalgia è di casa nel tempo perduto e produce frutti squisiti in letteratura e negli esercizi dell'anima; diventa invece nociva o irreale se pretende di fondare un atteggiamento civile e politico. Pasolini, in fondo, pativa lo stesso limite dei neofascisti, non a caso definiti nostalgici, e dei reazionari.
La vera, insuperabile critica che si può rivolgere ai nostalgici antimoderni di un'età dell'oro rurale è ben condensata da Antonello in queste righe: «Come mai tutti questi contadini così miti, così innocenti, così dignitosi nella loro povertà durata secoli, si sono consegnati in pochissimi anni alla società dei consumi?». Dov'è finita in così breve tempo la loro millenaria sobrietà, la loro saggezza, se la loro massima aspirazione è stata consegnare i loro figli «all'inferno dei consumi»? Del resto, cosa cercano oggi le masse di migranti che vengono da noi, se non quel «modello consumistico»? L'osservazione è ineccepibile nella sua elementare evidenza. L'induzione di desideri artificiali spiega solo in minima parte e ha come contrappeso il dubbio che solo la proibizione, il divieto di mangiare la mela, e dunque la non conoscenza, potesse preservare la loro «purezza». È da qui, in effetti, che l'intellettuale deve oggi ripartire per riscoprire il suo compito: capire se una società può vivere solo dei desideri e dei mezzi per soddisfarlo. Per reincantare il mondo egli deve partire dal disincanto. Cioè dal vuoto, dal deserto che si è prodotto, e che non è stato indotto da chissà quale demiurgo malvagio, ma è cresciuto con la nostra libertà e i nostri desideri.
All'intellettuale spetta il compito di ripensare l'anima, l'origine e il destino nel tempo del nichilismo, della tecnica e della proliferazione dei desideri. E distinguere tra l'accessorio e l'essenziale, il passeggero e il duraturo, i mezzi e gli scopi. Ripartendo da quel punto scolorano i conflitti politici e personali presenti e i loro fantocci. Si guarda in faccia la realtà e dopo averla conosciuta ti domandi se sia il caso di superarla. O se sia meglio farsi agente, istruttore e notaio della società globale, nichilista e disincantata. Compito dell'intellettuale non è armare rimpianti, rancori o utopie; ma suscitare le anime, sintesi di mente e passione, a pensare la vita e non solo a viverla.

Dimenticare gli automi.

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