«Apocalypse» Faas, l’uomo che mostrò l’orrore del Vietnam

«Apocalypse» Faas, l’uomo che mostrò l’orrore del Vietnam

Horst Faas, l’uomo che fotografò il Vietnam, ci ha lasciato e con lui scompare un pezzo di storia del giornalismo di guerra. I suoi scatti più famosi sono quelli dei cadaveri di un’imboscata nelle risaie, degli elisbarchi dei GI sulle colline della morte conquistate palmo a palmo, dei civili vietnamiti terrorizzati, con i figli aggrappati ai genitori immersi negli acquitrini in cerca di un disperato riparo. L’inferno del Vietnam gli è valso il primo Pulitzer, nel 1965, e con i prigionieri infilzati dalle baionette in Bangladesh l’ha conquistato la seconda volta, nel ’72, come miglior foto-giornalista.
Per assurdo, però, il tedesco nato 79 anni fa a Berlino viene ricordato soprattutto per le immagini scattate da altri, che ha avuto il coraggio di far conoscere al mondo nonostante qualcuno storcesse il naso all’Associated press, l’agenzia per cui ha lavorato tutta la vita. La prima è la famosa «Napalm girl», la ragazzina vietnamita, che corre nuda e disperata con le braccia aperte fuggendo da un pauroso bombardamento americano. I bacchettoni del tempo volevano censurarla con la scusa ufficiale che la ragazzina non aveva niente addosso. La seconda foto storica è l’esecuzione di un Vietcong preso nei primi giorni dell’offensiva del Tet su Saigon, che nel ’68 sorprese gli Usa. Il comandante della polizia del Vietnam del sud, tenente colonnello Nguyen Ngoc Loan, puntò una pistola a tamburo alla tempia del prigioniero, davanti a un fotografo di Ap, e tirò il grilletto facendogli saltare le cervella.
Faas, chinandosi con il lentino sulla sequenza del negativo in bianco e nero pensò: «Abbiamo vinto la lotteria. È l’immagine perfetta». Il fotografo dell’esecuzione era Eddie Adams, un ex marine, che assieme a «Nick» Ut, autore di «Napalm girl», faceva parte della «banda di Horst», l’eccezionale manipolo da prima linea che il picture editor tedesco dell’Ap a Saigon aveva creato sul campo. La prima recluta di Faas era stato il fratello del fotografo della ragazzina in fuga dal napalm, Huynh Thanh My, ex attore, ucciso in prima linea. «Nick» Ut prese il suo posto.
Faas era un omaccione, che con due corpi macchina al collo e l’elmetto in testa s’infilava in tutti i posti più schifosi della guerra in Vietnam rimanendo gravemente ferito. Le schegge di un razzo gli spazzolarono le gambe e rischiò di morire dissanguato. Per sei settimane rimase in sedia rotelle, prima di lanciarsi nella guida dell’Ap foto a Saigon travolta dall’offensiva del Tet. Faas ricorda che «normalmente dovevamo andare nella giungla, ma questa volta la battaglia era fuori dalla porta». E nella giungla andava spesso con un’altra leggenda del giornalismo che si è fatto le ossa in Vietnam, Peter Arnett. Fass scattava celebri foto dei soldati americani feriti e Arnett scriveva i dispacci dell’Ap.
La guerra l’aveva assaggiata da bambino, quando fu reclutato dalla gioventù hitleriana e al crollo del Terzo Reich fuggì verso Occidente con la famiglia davanti all’avanzata dei sovietici. A 21 anni cominciava a scattare le prime fotografie venendo arruolato nel ’56 da Associated Press. Ma la vita professionale di Faas non è legata soltanto al Vietnam. I soldati bambini immortalati in Congo, l’Algeria e la stretta di mano fra il presidente americano Richard Nixon e quello egiziano Sadat, davanti alle piramidi, sono altre tappe della sua carriera. Il tedesco prestato alla fotografia è anche l’autore della storica immagine del palestinese incappucciato che a Monaco, nel ’72, era apparso su un balcone dopo aver preso in ostaggio gli atleti israeliani con un commando di Settembre nero. Fino al 2005, quando ha cominciato a star male proprio ad Hanoi, dove organizzava il ritrovo dei corrispondenti del Vietnam, dove una settantina di giornalisti hanno perso la vita.
Per onorare un gigante dalla fotografia di guerra come Faas tutti citano la frase pronunciata in occasione del suo primo Pulitzer, quando disse che era partito per «raccontare le sofferenze, le emozioni e i sacrifici di americani e vietnamiti in questo piccolo paese lontano macchiato di sangue».

I veterani di questo incredibile mestiere preferiscono ricordarlo a Saigon, quando la parola d’ordine per la sua banda con le macchine al collo spedita ogni giorno all’inferno era una sola: «Tornate con delle belle foto».
www.faustobiloslavo.eu

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