Cultura e Spettacoli

ART TIPALDI Alle radici del blues nelle bettole scure del Mississippi

Art Tipaldi Ero un adolescente quando, nel 1964, i Beatles vennero in America e suonarono all’Ed Sullivan Show. Mentre cantavano She Loves You e le ragazze strillavano i loro nomi, capii esattamente che cosa avrei voluto fare del resto della mia vita: mettere le mani su una chitarra e imparare a suonare, se desideravo avere miglior fortuna con l’altro sesso. Intorno alla metà degli anni ’60, non c’erano dvd o manuali che accelerassero il processo di apprendimento. Per imparare, dovetti mettere su dei dischi e imitare nota per nota i suoni di quei chitarristi. Dopo essere passato attraverso le piaghe ai polpastrelli e ore e ore di solitudine nella mia stanza, ben lontano dall’altro sesso sul quale intendevo fare colpo con la chitarra, feci una scoperta: il blues del Delta. C’era una ragazza dai capelli biondi stirati e dagli orecchini circolari che, quando mi vide nei locali della scuola alle prese con una canzone di Bob Dylan, disse: «Niente male. Conosci qualcosa di Mississippi John Hurt?». Ne avevo sentito parlare da appassionati di musica più vecchi di me, a proposito del Festival del Folk di Newport. Capii che avrei dovuto saperne di più su quell’Hurt. Al negozio di musica, scoprii una miniera di dischi di Mississippi John Hurt. A quei tempi, un 33 giri costava 2 dollari e 99 oppure 2 e 49. Con il salario minimo intorno ai 2 dollari l’ora, potei permettermene solo uno. Ne comprai uno che si intitolava Today. Non ero preparato per quello che sarebbe accaduto subito dopo. In tutta la mia vita, non avevo mai sentito uno stile di finger picking (una particolare tecnica di arpeggio, ndt) così delicato e raffinato. Controllai nuovamente la copertina dell’album per scoprire se ci fosse un altro chitarrista. Non riuscivo a credere che a suonare fosse un solo uomo. Il calore della sua voce e l’apparente semplicità con la quale suonava sconvolsero il mio universo. Sapevo che, se avessi voluto sentire il profumo di quei capelli ribelli, avrei dovuto imparare a suonare nel suo stile. Per farlo, mi ci sarebbe voluto molto tempo. Mi sarei dovuto sbarazzare del plettro e avrei dovuto imparare a suonare con le dita, secondo uno stile nel quale pollice e dita operano insieme. Candy Man divenne la mia Everest. Una volta che l’avessi conquistata, avrei avuto la chiave per tutte le altre canzoni. A dire la verità, ce la feci ad apprendere lo stile apparentemente facile di Hurt; comprai tutti i suoi dischi; non lo vidi mai suonare dal vivo ma parlai con musicisti che lo avevano conosciuto, anche se non ebbi mai la possibilità di suonare la sua musica per quella ragazza misteriosa che aprì la porta al prosieguo della mia vita. Purtroppo, gli anni passarono in fretta. L’università, il matrimonio, la famiglia, il lavoro, il divorzio. Tuttavia, non persi mai di vista la mia chitarra e il Blues. Una sera, anni dopo, mi imbattei in un bluesman del Delta della prima generazione, che suonava in un club. Osservai il novantenne Henry Stokes, noto anche come Mr. Canned Heat, avviarsi verso il palco con il passo rilassato e pacato di una persona di 90 anni. A dispetto degli scrosci di applausi, mi chiesi se il pubblico stesse battendo le mani perché davvero aveva sentito le sue vecchie registrazioni a 78 giri per l’etichetta Vocalion oppure se lo stesse facendo per mera cortesia. Una volta che ebbe la chitarra tra le mani, Heat si trasformò, come d’incanto, nel ventenne che si era esibito praticamente in ogni bar e festa all’aperto del Delta del Mississippi. Un luccichio seducente accese di vita i suoi occhi mentre le sue dita e la sua voce viaggiavano a ritroso nel tempo. Quella musica veemente era un’escursione cruda, elettrica, eccitata, attraverso la quale vagheggiai le evoluzioni di ballerini in strada o in una bettola, in risposta ai suoi ritmi ipnotici. Nel giro di pochi minuti, il pubblico si ritrovò in una bettola scura del Mississippi, ma la comunicativa di quell’uomo faceva di lui qualcosa di totalmente diverso da qualsiasi cosa avessi mai visto. Il fortissimo volume della chitarra di Heat era la risposta alle morbide sollecitazioni del suo dito. La sua voce era puro Crown Royal di 12 anni. Dal labbro gli pendeva la classica sigaretta spenta. Poi, con la sigaretta accesa nella mano destra, suonò la chitarra con una mano sola, dietro la schiena, sopra la testa e davanti agli occhi degli avventori, con la stessa velocità e pulizia di qualsiasi giovane asso della chitarra della scena moderna. Mentre attaccava il pezzo conclusivo, Heat si mise a ricordare i giorni in cui aveva suonato nelle bettole e nelle feste private insieme a Charley Patton, Willie Brown, Son House, Robert Johnson e persino Mississippi John Hurt. Rimbrottò un pubblico di una quarantina di esperti. «Pensate di conoscere questi blues che sto suonando solo perché avete un disco? Il vero blues è nelle bettole. Portate i vostri culi nel Mississippi prima che sparisca l’ultima bettola». Ecco qua. Me ne sto andando in Mississippi. Avevo appreso che il vero posto in cui spogliarmi della pelle della modernità per sentire le vere pulsazioni del Blues era il Junior Kimbrough’s Juke Joint, nel Mississippi settentrionale. Dato che Junior teneva aperto per il blues solo la domenica sera, programmai il mio volo in maniera da arrivare a Memphis di domenica pomeriggio. Poi avrei preso una macchina, avrei trovato un alloggio per tutta la settimana e mi ci sarei diretto con l’oscurità. Dal 1920 ai giorni nostri, le bettole di campagna del Mississippi sono state le incubatrici del blues. Nei giorni della mezzadria, quelle baracche dal tetto di lamiera erano i ritrovi del fine settimana per i neri in cerca di incontri con l’altro sesso e di gioco d’azzardo, dopo essersi quasi spezzati la schiena nei campi per l’intera settimana. Venditori ambulanti di whisky prodotto illegalmente e musicisti alle prime armi fornivano l’intrattenimento di cui gli afroamericani avevano bisogno per quelle danze sfrenate che si accompagnavano ai ritmi primordiali di Charlie Patton, Son House, Robert Johnson e, più tardi, Muddy Waters, Johnny Shines, e Honeyboy Edwards. Nel Mississippi di juke joints ce ne sono ancora. I musicisti più giovani possono tuttora apprendere i segreti di questa musica rurale da maestri come Roosevelt “Bubba” Barnes, Big Jack Johnson, Sam Carr, e Frank Frost. Ma è tra le pareti del bar di Junior che gli insegnamenti autentici di Kimbrough e R.L. Burnside si tramandano ancor oggi. Quella sera, mi diressi sulla Route 4, fino al Junior Kimbrough’s Juke Joint. Su quella strada di campagna, capii che quello era uno dei pochi, preziosi ritrovi in cui si potessero ancora percepire le origini del blues. I 32 gradi soffocavano i nuovi venuti come me; le persone del posto non ci facevano quasi caso. Alle 8.30, una ventina di automobili erano già parcheggiate sul piazzale. Junior se ne stava seduto all’entrata a raccogliere i soldi. Mi accolse con una richiesta di 2 dollari di ingresso e un «Tutto a posto?». All’interno, c’erano un tavolo da biliardo e qualche mobile sparso. Qualcuno stava tirando fuori delle lattine tiepide di Bud da un frigorifero che più o meno risaliva al 1960. Intorno a me, tutti si stringevano le mani e si scambiavano saluti, in una vivace miscela di bianco e nero. Seduto su una sedia malandata, R.L. Burnside, un cliente regolare della domenica, si mise a suonare I can’t be satisfied di Muddy Waters, in solitaria. A occhi chiusi, mi sarei potuto immaginare Muddy nelle bettole di Clarksdale, Mississippi, nel 1941. Lo stile percussivo di R.L. Burnside non aveva bisogno di altri strumenti. I clienti più giovani erano intorno al tavolo da biliardo mentre i clienti abituali si erano ammassati al centro del locale e avevano iniziato a fare lenti movimenti sensuali di danza, sulle note ipnotiche di R.L. Burnside, centrate intorno a un unico accordo che fluttuava nell’aria come il rampicante che copre e definisce molto di quel territorio. Mezz’ora dopo, fu la volta di Junior Kimbrough. Non ci fu bisogno di aspettare tra un artista e l’altro. Junior si sedette, sistemò l’asta del microfono tenuta insieme con del nastro da idraulico e iniziò a suonare. Me ne andai, intossicato di blues. Ero finalmente pronto a spararmi i fondamenti del blues nelle vene. Ma avrei dovuto parlare e suonare con R.L. Burnside, vivere come lui. Il giorno seguente, andai alla ricerca di Burnside. Seguii la lunga strada sterrata finché giunsi in prossimità della sua casa di campagna. Attrezzature arrugginite da contadino, vecchie macchine in vari stadi di decadimento e deliziosi profumi di una cucina rustica furono le mie prime impressioni della sua dimora. Burnside mi invitò a unirmi a lui in quello che sarebbe stato il nostro rito quotidiano per il prossimo mese. Mentre ci accomodavamo sotto il portico, attorniati da bambini, caldo e chitarre, Burnside mi raccontò la sua vita e il blues. E benché, per tutto quel periodo, non avessimo fatto altro che parlare ogni giorno, le sue storie si condensano in un piccolo consiglio che chiunque voglia suonare il vero blues deve fare suo. Burnside mi disse di aver iniziato a suonare la chitarra quando suo cognato gliene diede una su cui imparare. «Sono cresciuto a stretto contatto con Fred McDowell e Son Hibler, un chitarrista che suonava nelle feste all’aperto. Ho sempre desiderato suonare, ma mi ci è voluto un po’ per imparare. Quando sono stato grandicello, mio nonno ha iniziato a portarmi nelle bettole con lui. Ascoltavo quei tizi e non facevo altro che esercitarmi a casa sulla musica di Muddy Waters e Lightnin’ Hopkins. Ma non avevo mai suonato in pubblico. Una volta, in un locale in cui Hibler aveva suonato per un’ora, gli chiesi se potevo suonare mentre lui faceva una pausa. La mia vecchia disse: «Ti coprirai di ridicolo di fronte a tutta questa gente!». Ero agitato perché nessuno pensava che fossi in grado di suonare. Quando iniziai, la gente balzò in piedi nell’altra stanza dove si giocava d’azzardo e si mise a gridare. «Chi sta suonando la chitarra?». Da quel giorno, ci andai tutte le domeniche. Colsi di sorpresa mia moglie. Non sapeva che io suonassi così. Avevo 19 anni. Oggi sono quasi 50 anni che lo faccio. Nel corso delle nostre conversazioni, Burnside mi disse che erano quelle bettole di campagna a fornire un tetto sotto cui dare forma agli stili dei bluesman del Delta. «Crescendo, ho suonato soprattutto in locali per neri. Bei tempi. Le danze andavano avanti dalle otto alle tre o quattro del mattino. Posti come il bar di Junior erano aperti solo una sera alla settimana». Il Blues di Burnside si distanzia notevolmente da quello che scorre fuori dal Delta. La sua musica è ancorata alla tradizione dei flauti e delle percussioni delle colline del Mississippi. «Il mio stile viene dalla zona di Holly Springs. Il ritmo e le progressioni li decido in base al mio umore». Al pari di Mississippi Fred McDowell e John Lee Hooker, Burnside rimane sull’accordo fintanto che non sente che è venuto il momento di cambiare. La mancanza di alternanze armoniche è il suo marchio di fabbrica. È difficile stargli dietro. Una volta, seduti sulla veranda, presi in mano una delle chitarre di R.L. Burnside e lo accompagnai timidamente per tutto il pomeriggio. Alla fine, sorrise. «Stasera suoni con me, figliolo». R.L. Burnside sapeva che ero pronto per essere gettato nel fuoco del juke joint. Il primo in cui mi portò era un posto sfrenato. Quelle strade di campagna, vere e proprie gallerie create dagli alberi cresciuti in eccesso, sembravano non finire mai. Giungemmo al locale. Alle dieci meno un quarto non c’era praticamente nessuno. Alle dieci e un quarto quel posto era stracolmo di gente. Il mio battesimo del fuoco era imminente. Dopo aver suonato insieme per un po’, R.L. Burnside mi disse di suonare un pezzo da solo mente lui si faceva una partitina a carte. Mi guardai intorno. Ero l’unico bianco in tutto il locale. Morivo di paura. Dissi: «Non ce la faccio a suonare davanti a questa gente». «Nessuno ti darà dei problemi. Se ti danno dei problemi, dovranno vedersela con me». rispose. Così feci quello che sapevo fare. Iniziai a suonare e la mia sicurezza crebbe man mano che la gente dimostrò di apprezzarmi. Al secondo pezzo, tutti si misero a gridare. «Bravo, così, ragazzino bianco!». Poco dopo, R.L. Burnside comparve e si mise a suonare con me. Ricordo quella notte come se ne avessi fatto un video. Ero lì, a cercare di spogliarmi della mia educazione moderna per poter sentire la voce che veniva dal profondo. Più suonavo e più riuscivo a esprimere le mie emozioni. Tutta la musica che avessi mai suonato in una blues band fino a quel momento risultò poco più che una insignificante imitazione. Ricordo di aver suonato una particolare nota in grado di esprimere le mie speranze e paure più di quanto potesse dire qualunque parola. Quando finalmente aprii gli occhi, ero una persona nuova. Negli anni, ho passato quanto più tempo mi è stato possibile in compagnia di R.L. Burnside. Ogni volta che me ne torno a casa, mi porto appresso un’idea più chiara del blues e del mondo. Ho sempre detto che R.L. Burnside mi ha dato uno dei consigli migliori di sempre, non solo a proposito del blues ma anche su come vivere la mia vita. Una volta mi disse: «Non suonare mai una nota se non ne sei convinto». Frequentare R.L. Burnside e altri musicisti è stato un po’ come frequentare l’Università del blues. Ho appreso che per assorbire l’essenza del vero blues, per quanto elementare, può volerci una vita intera. Non lo si può imparare attraverso un libro o un video; nella sua forma più pura, la sua trasmissione deve avvenire da bocca a bocca, da occhio a occhio. R.L. Burnside diceva sempre: «Sii te stesso quando suoni e suonalo col cuore. Se riesci a farlo, la gente sentirà quello che senti tu». Ero sempre stato convinto di sapere tutto del blues, di essere una specie di esperto. Ma per conoscere il blues avrei dovuto viverlo con il cuore e con l’anima. Per apprendere l’essenza del blues, avrei dovuto abitare nel cuore del Mississippi, la terra del blues, avrei dovuto osservare R.L. Burnside mentre suonava i suoi blues dopo aver passato la giornata nei campi. È questo il consiglio che do a un aspirante appassionato di blues.

Per captare l’essenza del blues, bisogna viverlo nella sua forma più pura: il Mississippi. (traduzione di Seba Pezzani)

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