Ascesa e caduta di Schwartz scrittore geniale ma infelice

T ra le riscoperte editoriali del 2013, bisogna senz'altro includere l'antologia di racconti di Delmore Schwartz edita da Neri Pozza (Nei sogni cominciano le responsabilità, introduzione di Lou Reed, pagg. 268, euro 17; una precedente edizione fu pubblicata da Serra & Riva nel 1990). Schwartz è considerato un classico della letteratura americana ma in Italia è (relativamente) poco noto. Scrittore per scrittori, non ha avuto un successo di massa, per altro mai cercato, ma la sua influenza è stata decisiva per almeno tre generazioni di artisti.
Nato nel 1913 da una famiglia di ebrei romeni immigrati a New York, il precoce Delmore a 25 anni è considerato un maestro di stile grazie al suo primo libro, che include un racconto (proprio Nei sogni cominciano le responsabilità), un poemetto e alcune poesie. Collaboratore fisso della Partisan Review, che ospiterà molti dei suoi scritti, negli anni Trenta e Quaranta è un punto di riferimento della vita intellettuale della città e non solo. Vorace lettore di Marx, Freud, Nietzsche, Yeats e soprattutto Joyce, intrattiene rapporti con Eliot, tra i primi ad accorgersi del suo talento. A Saul Bellow ispirerà un intero romanzo, Il dono di Humboldt (Schwartz è il modello di Humboldt). Uno dei suoi allievi alla Syracuse University, Lou Reed, scriverà due canzoni in sua memoria. La prima, European Son, è nell'esordio capolavoro dei Velvet Underground (1967), noto come il Banana Album per via della «scandalosa» copertina disegnata da Andy Warhol. L'altra, My House, apre il disco solista The Blue Mask (1982). Robert Lowell gli dedicherà una famosa poesia, To Delmore Schwartz, in cui ricorderà i giorni passati insieme a Harvard. Schwartz, nei versi di Lowell, descrive il suo destino: «Noi poeti siamo tristi fin da giovani / per questo ci attendono la depressione e la pazzia». Schwartz continuerà a pubblicare e insegnare. Ma sprofonderà proprio nella depressione e nella pazzia, aggravata dall'alcol. Morirà a 53 anni in un hotel di New York. Per tre giorni nessuno si accorgerà della sua scomparsa.
In questi racconti, Schwartz fornisce un ritratto impietoso del mondo intellettuale newyorchese; descrive con sarcasmo lo scontro fra generazioni; reinventa a modo suo il genere fantastico. Il capolavoro è la storia di poche pagine che chiude la raccolta a cui regala anche il titolo. Un ragazzo assiste a un film da incubo. I protagonisti sono i suoi genitori al primo appuntamento. Il corteggiamento commovente nella sua ingenuità sconvolge il giovane, che conosce il finale: un matrimonio infelice, reso ancora più brutto dalla sua nascita. Ah, poter entrare nello schermo, impedire le nozze, evitare il dolore...
Che descriva la rovinosa caduta di una ricca famiglia di assicuratori ebrei o la miracolosa nevicata destinata a trasformare New York in un inquietante museo a cielo aperto, Schwartz è interessato innanzi tutto a sezionare la psiche dei suoi personaggi. Inibiti, insensibili, egocentrici. Essi percepiscono la distanza tra le aspirazioni e la realtà. Anche la crisi economica serve a Schwartz per far esplodere le contraddizioni: è l'alibi con cui giustificare i propri fallimenti. Eppure è un alibi insufficiente. Ai protagonisti resta sempre il dubbio (la certezza appena mascherata) di valere poco, di essere inadeguati. Schwartz più della storica «Grande depressione» indaga la privatissima depressione figlia di una feroce crisi d'identità: «Nessuno esiste davvero nel mondo reale perché nessuno sa cosa rappresenta agli occhi degli altri esseri umani». Forte sembra il ricordo dei racconti di Fitzgerald, scrittore molto ammirato da Schwartz. Le analogie tra i due non si fermano all'ambito letterario. Hanno infatti biografie tragicamente simili.
I «disadattati» di Schwartz sono spesso colti in situazioni in cui è difficile gestire con naturalezza i rapporti umani. In ogni racconto c'è un circolo, una festa, un appartamento traboccante parenti, un'aula universitaria, una piazza. I gruppi d'amici, le famiglie, le masse sono l'insieme di numerose solitudini. Ognuno è perso nei suoi pensieri. La comunicazione, minata da insicurezze ed equivoci continui, prima si riduce a puro non sense e poi frana miseramente. La cifra di questi racconti è una rassegnata disperazione appena temperata dall'ironia.

Colonna sonora di queste pagine potrebbe essere una famosa canzone di Lou Reed, quella Perfect Day in cui la desolazione è la regola della vita, senza speranza di redenzione e senza tensione al tragico. Al limite ci è concesso il patetico sollievo di una «giornata perfetta» allo zoo. A pensarci bene è terribile. Delmore Schwartz purtroppo deve averci pensato molto bene.

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