La bellezza dopo la tempesta. L'arte di Bologna incanta tutti

Apre oggi la contestatissima mostra curata da Vittorio Sgarbi. In 180 opere si ripercorrono ben sette secoli di arte della città

La Fortuna di Guido Reni
La Fortuna di Guido Reni

Bologna - Una città, Bologna, che Roberto Longhi, in una celebre prolusione, ottant'anni fa, diceva essere la capitale dell'arte padana, centro di splendore fra la Toscana e il Veneto. Uno spazio museale “privato”, Palazzo Fava, sede di Genus Bononiae presieduta da Fabio Roversi Monaco, già rettore dell'Università di Bologna. Tre piani e le sale affrescate nel 1584 dai Carracci - Ludovico, Agostino e Annibale - e 180 opere. Eccola, dopo un anno e mezzo di lavoro, dal progetto all'inaugurazione, la grande mostra «Da Cimabue a Morandi» (sottotitolo longhiano: «Felsina pittrice», fino al 17 maggio), voluta e realizzata – fra le polemiche - da Vittorio Sgarbi. Che è ideatore, ma insieme curatore, architetto, allestitore, uomo immagine, comunicatore e ieri, giorno della vernice alla presenza del ministro Franceschini, anche cicerone, per noi e la composita, folta e folle corte che accompagna Sgarbi in occasioni del genere: giornalisti, fidanzata, fan, accademici, amici, assistenti, curiosi, passanti... E, curiosi, passiamo fra le sale dove si stanno dando gli ultimi ritocchi prima dell'inaugurazione di stasera, ad ascoltare la lezione del professore-critico-curatore-polemista, strepitosa didascalia vivente di ognuna delle opere – «Tutti capolavori, altrimenti non li sceglievo: qui c'è il pezzo più bello di ogni artista presente» – lungo sette secoli di storia dell'arte bolognese: dai polittici di fine Duecento alla grande, splendida, sala di Morandi e dei suoi contemporanei.

Una mostra grande, oltre che una grande mostra. Che pure nei mesi scorsi è stata attaccatissima: 130 fra professori universitari ed esperti del settore, capeggiati da Daniele Benati, hanno firmato un appello pubblico dalla pagina web di «Italia Nostra-Bologna» contro il progetto-spettacolo. E Sgarbi ha querelati tutti.

Lo hanno rimproverato di aver portato via per la sua mostra le opere più belle dai musei cittadini: la Pinacoteca, il Mambo, il Museo Musicale... E lui risponde che così le farà davvero vedere a tutti: i musei ormai non li frequenta più nessuno. Lì sono nascoste, qui – illuminate dall'«evento» - le riscoprono anche i bolognesi. «E comunque, 160 opere su 180 arrivano da collezioni private». Gli hanno rinfacciato di aver messo nella mostra «pezzi» della sua collezione personale. E lui ribatte che non ha tolto nulla al rigore dell'esposizione, «semmai arricchito il percorso con opere che altrimenti il pubblico non potrebbe mai accostare». Lo hanno criticato perché ha offeso la città, dicendo che è pigra, «morta». Ma lui è sicuro che così la sveglierà: «Voglio portare a vedere la mostra anche chi confonde Tiziano Ferro con Tiziano. Occorre fare di tutto per comunicarlo, o no?».

Sì. E la città, vista da qui, non sembra per nulla offesa. Semmai disinteressata, anche alla polemica. «La verità – commenta a voce bassa una “vecchia” professoressa dell'Accademica di Bologna – è che è un grande libro illustrato che raccoglie tutta la storia dell'arte della città. È la mostra che tutti avremmo voluto fare». Ma siccome l'ha fatta Sgarbi...

E siccome l'ha fatta Sgarbi, la mostra ha il proprio centro nel San Domenico scolpito nel 1474 da Niccolò dell'Arca, «il più grande scultore di tutti i tempi insieme a Donatello», un'opera maestosa, che fa parte – appunto – della collezione Sgarbi. «L'ho messo nello stesso punto in cui, sotto i fregi dei Carracci, c'era La ragazza con l'orecchino di perla nella mostra su Vermeer di Marco Goldin, l'anno scorso». Lo spettacolo è identico.

Di fronte a Niccolò dell'Arca c'è il polittico dell' Incoronazione dello pseudo-Jacopino, nella parete a lato la Croce dipinta di Marco Ruggeri detto lo Zoppo, c'è la Sacra Famiglia di Antonio Leonelli da Crevalcore (1490-1500), c'è Vitale da Bologna, c'è Michele di Matteo... Sotto le opere, le didascalie sono enormi e leggibili a distanza. E sopra, sulle pareti, corrono le frasi dei grandi storici dell'arte, di Longhi, di Arcangeli, e dello stesso Daniele Benati, che in passato ha detto cose ottime sulle stesse opere, ora esposte in una mostra «pessima». Vendette sgarbiane.

E poi c'è la «stanza sublime» con la Madonna di Cima da Conegliano e con il capolavoro assoluto di Raffaello: L'estasi di Santa Cecilia dipinta attorno al 1515 per la chiesa di San Giovanni in Monte e il cui spostamento dalla Pinacoteca ha scatenato la bufera cittadina... Ci sono pezzi “inediti” per Bologna, come la cinquecentesca Sacra Famiglia di Antonio Fantoni, che Sgarbi ha portato qui da Ascoli Piceno, c'è Ercole de' Roberti - «Anche l'arte padana ha i suoi Leonardo» – ci sono ritratti di Bartolomeo Passerotti e del Domenichino, c'è un nudo di Lavinia Fontana del primo Seicento, c'è la «sala capricciosa» con sette quadri di Giovanni Andrea Donducci, il Mastelletta. Poi ci sono gli splendidi Guido Reni: l' Annunciazione del 1629 – «Vieni a vedere questo angelo, lo puoi leccare, lo puoi chiavare tanto è bello... è il più bel dipinto di Reni, e il più bello della mostra, più di Raffaello» – e c'è un grande olio su tela che quando Sgarbi lo chiese alla Accademia di San Luca a Roma era attribuito a Giovanni Andrea Sirani, e invece, si è scoperto nei giorni scorsi essere proprio d Guido Reni. È, come recita il titolo, una Fortuna . E, scherzo del fato, è l'opera scelta per l'immagine di copertina del catalogo della mostra, che reca ancora la vecchia attribuzione.

E poi ci sono le sale del Settecento, con le “mostruose” sculture anatomiche in cera di Anna Morandi Manzolini, quelle dell'Ottocento con Serra e Faccioli, il primo Novecento con il futurista Athos Casarini, e la sala maestosa di Giorgio Morandi – che proprio Roberto Longhi, al quale la mostra di Sgarbi è dedicata, per primo battezzò come «uno dei migliori pittori viventi d'Italia» - e dei post-morandiani, come Leonardo Cremonini, morto nel 2010, un grande bronzo di Luciano Minguzzi, scomparso nel 2004.

L'impressione, alla fine della mostra - una meravigliosa città di Bologna che sale lungo tre piani - è che il tutto sia perfettamente pensato, e perfettamente allestito. Al di là delle passate (e certo future) polemiche, le invidie, le querele, le ripicche.

La cosa curiosa, ma italianissima, è che sfogliando il catalogo, fra gli autori delle schede delle opere, si trovano molti allievi degli stessi professori bolognesi che hanno attaccato la mostra, anche dello stesso Benati... E, non a caso, furono proprio i bolognesi, all'incoronazione in San Petronio di Carlo V, nel 1530, a coniare la frase, oggi celeberrima, «Franza o Spagna, purché se magna». Tutto il mondo dell'arte è paese.

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