Nell'introduzione alla raccolta di racconti La vista da Castle Rock, del 2006, forse la cosa più simile a un'autobiografia che le sia capitato di scrivere, insieme a Le lune di Giove del 1982, Alice Munro sentì comunque il dovere di ricordare che «These are stories», queste sono - solo? - storie. E raccontando solo piccole storie, short stories, la piccola Alice, 82 anni, i capelli argentati come le volpi allevate dal padre, i modi semplici della madre insegnante, è entrata nella Storia.
Assegnato a un autore canadese (mai accaduto prima), donna (è la tredicesima volta nella storia del premio, autrice soltanto di racconti, genere letterario da sempre ritenuto «minore» e invendibile (altra cosa che succede per la prima volta), il Nobel a Alice Munro è un Nobel storico. Primo, perché la scelta è eccellente dal punto di vista del valore squisitamente letterario, finalmente senza (secondi) fini politici, e infatti la scelta dell'Accademia di Svezia ha messo per una volta tutti d'accordo: persino L'Osservatore Romano l'ha benedetta. Poi perché il premio, dopo tanto tempo, è attribuito a una grande scrittrice riconosciuta come tale a livello mondiale - «maestra del racconto breve contemporaneo» recita la motivazione della giuria -, a coronamento di una carriera e di una bibliografia straordinarie (una ventina di raccolte di racconti alle spalle, per tre volte vincitrice del «Governor General's Award», il più importante premio letterario canadese, e del «Man Booker International Prize» nel 2009) e non per «improvvisi» meriti politico-mediatici come spesso avvenuto in passato; e infine perché, scegliendo una scrittrice che sa narrare vicende umane, lette attraverso la «normalità» della vita quotidiana, in cui tutti gli uomini e le donne, a ogni latitudine e in qualsiasi tempo, riescono a rispecchiarsi, il nome della Munro è certo che rimarrà nella storia del premio e della letteratura, cosa che non si può dire per tanti altri suoi colleghi - più «datati» e «contingenti» - che l'hanno preceduta: chi ha più (ri)letto, per citare alcuni nomi, Elfriede Jelinek, Jean-Marie Gustave Le Clézio o Herta Müller?
Nata a Wingham, Ontario, nel 1931 - «durante la depressione, non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America fu disastrosa: non eravamo disperatamente poveri: eravamo mentalmente poveri», dichiarò in una delle poche interviste rilasciate -, un'infanzia trascorsa in una fattoria modestissima, una vita isolata nel suo immenso Canada, due mariti, tre figlie, pochi autori culto: Flannery O'Connor, Carson McCullers, Eudora Welthy. Ecco, in breve, Alice Munro. I critici l'hanno paragonata a Anton Checov e a Guy de Maupassant. Jonathan Franzen, in un saggio del suo libro Più lontano ancora, ha spiegato perché «la bravura di questa scrittrice superi in modo così sconcertante la sua fama», mentre Margaret Atwood, altra canadese da Nobel, ne ha parlato come di una «santità letteraria internazionale». Da parte sua, Alice Munro, che dal 1968, quando uscì La danza delle ombre felici, fino alla scorsa primavera, quando annunciò di non voler più pubblicare nulla, ha scritto sempre e soltanto racconti («Per via del mio lavoro di casalinga, ero sempre interrotta da qualcosa, non potevo nemmeno lontanamente pensare a un romanzo»), si è sempre preoccupata di fare bene il proprio mestiere di madre, di moglie e di narratrice. Nient'altro.
Schiva, riservata, curiosa, ha sempre sostenuto di voler descrivere semplicemente la vita con le sue emozioni. Senza trucchi.
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