Controcultura

"Bravissimi a distruggere non sanno più costruire"

Anche i "buoni" devono avre un nemico, cioè la destra.

"Bravissimi a distruggere non sanno più costruire"

La sinistra si ritrova dentro un paradosso: Una volta abbracciato l'individualismo globalista per cui ogni identità quella di nazione, ma pure quella di classe va negata e decostruita, l'unico modo che resta per definire se stessi è quello di combattere chi invece le identità le difende. Per cui la sinistra si può costruire solo come comunità politica che rifiuta l'idea di comunità, ossia contro il nemico sovranista, fascista e razzista. L'identità degli anti-identitari» spiega Giovanni Orsina, professore di Storia e direttore della School of Government alla Luiss.


Un processo che non nasce oggi, professore.


«No, negli anni '70: il momento di rottura delle identità politiche tradizionali e anche della crisi del marxismo. La sinistra è sempre stata antitradizionalista, ma l'idea originaria era che, una volta distrutte le comunità tradizionali, se ne sarebbero ricostruite di nuove e migliori. Augusto Del Noce riconosce nel marxismo due movimenti: uno distruttivo che nega i valori tradizionali subordinandoli alle circostanze storiche, uno costruttivo che poi sulle macerie edifica la nuova società perfetta. Nel Suicidio della rivoluzione spiega magistralmente il fallimento necessario di questo doppio movimento. Che cosa ne esce fuori? Quella che lui chiama la società opulenta, fondata sui diritti dell'individuo e sul relativismo che tende a diventare nichilismo. La sinistra post-marxista capisce di poter sfruttare il moto distruttivo volgendolo contro l'identità nazionale e la tradizione, che sono i suoi nemici storici. Negli anni '90, con l'aggiunta dei processi di globalizzazione, è proprio questa sinistra globalista e individualistica a trionfare. A quel punto, però, si pone il problema della pars construens».


È lì che inizia l'ossessione per razzismo, fascismo e xenofobia: unico argomento politico della sinistra?


«Già negli anni '90 Anthony Giddens, il teorico della terza via di Blair, celebra la fine di un mondo, ma senza proporne un altro, convinto che dalla distruzione dei valori politici della tradizione qualcosa infine uscirà. Le identità non esistono più, non esistono più le radici, i confini nazionali intesi come comunità, che cosa ci resta? Individui riflessivi capaci di reinventarsi e ricostruirsi in qualche modo, da soli. Un'operazione difficile. Dà la misura di come la parte distruttrice del doppio movimento sia stata celebrata pensando che poi questo mondo globale di individui sarebbe stato comunque positivo per il solo fatto di aver sepolto i valori tradizionali. Ma ora i nodi sono venuti al pettine».


Ma così la sinistra non ha perso per strada anche propri temi identitari: il lavoro, le classi più deboli?


«Certo, abbandonando le identità collettive ha abbandonato anche quella che era la sua ragione sociale novecentesca, ossia l'idea di classe. A partire dagli anni '70 il pensiero postmoderno ha decostruito tutte le identità collettive. A priori non esistono più italiani o proletari e nemmeno maschi o femmine perché le identità sono tutte costruzioni artificiali. Questa trasformazione culturale rende pressoché impossibile la politica, e non soltanto a sinistra. A sinistra, a ogni modo, hanno reagito, faticosamente, accettando i processi di iperindividualizzazione, ossia sposando l'idea che gli individui, tutelati nei loro diritti dalle corti nazionali e internazionali, forniti di risorse materiali dal mercato, siano in grado di emanciparsi, autodeterminarsi e realizzare un progetto di vita. In questo mondo, però, la politica conta sempre di meno, e contano sempre di più i tecnocrati e i magistrati. La sinistra ha così rinunciato al primato della politica. Chi è in grado di sfruttare mercato e diritti sono le élite, gli abitanti delle città che viaggiano, parlano l'inglese, hanno successo nel mondo globale. I perdenti sono tagliati fuori».


Così la sinistra non ha preso le parti dei perdenti ma è diventata il partito delle élite. Mentre la destra si è appropriata del tema delle periferie e dei proletari.


«Certo, questo è il paradosso della sinistra. Ha sposato il progetto individualistico e globalista perché le permetteva di sconfiggere la nazione e la tradizione, illudendosi che quel progetto fosse egualitario e democratico. E man mano che prendeva forma invece un nuovo dualismo fra aristocrazia globale e plebe locale, si è legata sempre di più all'aristocrazia e reciso le sue radici plebee. La plebe locale a quel punto, esasperata, si è volta a destra. E demonizzare la destra è diventato a sinistra l'unico modo per dotarsi di un'identità politica. Anche i tolleranti, razionali, inclusivi progressisti devono potersi indignare, pensarsi in guerra contro qualcuno.

Ed ecco l'identità dell'anti-identità, il razzismo contro i razzisti».

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