Non bisogna credere ai figli quando parlano dei loro padri, anche se hanno a disposizione un fascio di lettere che abbraccia tutta la loro vita. È ciò che accade in John Cheever, Le Lettere (Feltrinelli, pagg. 448, euro 35, traduzione e postfazione di Tommaso Pincio, con prefazione di Ben Cheever, figlio dello scrittore). Il corpus di lettere è schiacciato soprattutto da Ben Cheever: non solo dalla prefazione (perdonabile e a tratti commovente), ma soprattutto dai commenti a ogni missiva che da una parte la contestualizzano e dall'altra impediscono spesso al lettore l'epifania della lettura, rischiando di minare lo spirito e la qualità di un'operazione editoriale eccellente come quella di Feltrinelli: pubblicare tutta la produzione di uno dei più apprezzati scrittori americani del Novecento.
John Cheever nacque nel 1912 a Quincy, sobborgo di Boston, frutto di una gravidanza non desiderata, da una famiglia di alto lignaggio coloniale che nel 1926 va in rovina: il padre imprenditore è oberato dai debiti e diventa alcolista, e la madre apre un negozio di souvenir per mantenere la famiglia e un «marito ormai inetto e dedito all'omosessualità». Una situazione che grava sulla psicologia del Cheever uomo e scrittore: autore di cinque romanzi e 121 racconti, in tutti i suoi libri descrive la mancata realizzazione del sogno americano. Dietro il ricco conformismo dei sobborghi newyorkesi, racconta gli inferni domestici stemperati dal nulla: le difficoltà economiche mascherate dietro cocktail emotivi e partite di golf, gli amori coniugali di facciata, l'alcolismo dilagante, l'universo borghese dei pendolari trasformati in turisti della vita. Racconta quella che Thoreau definiva «una vita di quieta disperazione». Il mondo di Cheever, e anche queste Lettere , rispecchia il lato opposto della «rispettabilità borghese»: eccentrico, a volte comico e spesso di «un'oscurità trasparente». Cheever è spesso chiamato «il Cechov americano»: definizione che tutti ripetono, ma che fu coniata dal giornalista del New Yorker A.J. Liebling nel 1956, prima che uscisse Wapshot Chronicle . Scrisse che Cheever era l'«American Chekhov» (così traslitterano gli americani), anche perché Cheever scrisse un saggio sull'autore russo (mai tradotto in Italia).
Paragone più giornalistico che critico, perché entrambi prediligono forme brevi che vanno dal bozzetto alla novella; entrambi amano parlare di ciò che accade sotto la superficie di un'apparente calma; entrambi traggono le storie dal nulla e non hanno una morale esplicita. Anche se Cheever per formazione è più religioso: dietro i suoi scritti risuonano i testi sacri più di quanto si possa immaginare. Gli scrittori a lui più vicini sono Hemingway, Fitzgerald e Faulkner. Cheever conosceva a memoria i loro libri, li leggeva e rileggeva e ogni tanto prendeva qualche spunto (specialmente da Fitzgerald). Il suo rapporto più intimo è stato, però, quello con Thoreau: come si può evincere anche da Il nuotatore (racconto da cui fu tratto il celebre film Un uomo a nudo interpretato da Burt Lancaster): la wilderness dello stagno di Thoreau si è ridotta alle piscine delle villette a schiera dei vicini di casa, i « westernhazis » («gli svaporati del West»).
Le Lettere - che hanno il merito di riportare Cheever all'attenzione che merita dopo che le sue opere pubblicate da Garzanti negli anni '60 caddero nell'oblio e dopo il grandioso rilancio negli anni '90 da parte di Fandango - mostrano tutti gli aspetti del Cheever più intimo e forse contraddittorio (chi non lo è?). Il rapporto tormentato con il padre, quello controverso con gli altri scrittori e con la propria omosessualità. Le Lettere sono una fonte di vibrazioni continua. A esempio quando nel 1958 scrive che non è tranquillo. Nonostante il suo primo romanzo, The Wapshot Chronicle , abbia vinto il «National Book Award», è attraversato da un misto di disagio cosmico, ottimismo e preoccupazioni per il futuro: «A dispetto del fatto che la fine del mondo mi pare molto vicina, riesco a lavorare e ho una buona raccolta di racconti pronta per uscire in autunno. Il romanzo, malgrado le sue fortune, non ha reso abbastanza soldi perché in una famiglia di cinque persone abbiano tutti le scarpe e che io sia dannato se ho idea di come possa finanziarne un altro. E per qualche ragione i racconti mi hanno stufato. Li scrivo senza troppi problemi ma ho l'impressione di giocare al ribasso».
Cheever sta tutto in queste sovrapposizioni, nei suoi inneschi e disinneschi continui, nell'incapacità di mettere radici profonde. Oppure nella schiettezza di una lettera a un giovane amico poeta che voleva fargli leggere il proprio romanzo. A pochi mesi dalla sua morte, nel 1981 dopo sei anni di disintossicazione da quello che lui definiva il proprio «suicidio da alcolizzato», scrive: «Il solo consiglio che mi senta di dare a un giovane scrittore è di scoparsi una brava agente. Scopala e basta e se lei ti assilla, sposala. Pare sia l'unica maniera per farsi strada. William Faulkner, James Gould Cozzens e perfino Gay Talese si sono scopati le loro agenti. Io sono un vecchio ormai prossimo alla fine del viaggio e se un giovane di talento venisse a trovarmi al letto di morte e mi chiedesse un consiglio, gli sussurrerei: Scopati una brava agente».
E stato così Cheever, sino alla sua ultima lettera destinata a Philip Roth: «La mia medaglia non era d'oro, ma d'altronde il mio romanzo non era un capolavoro. Sono stato attaccato da un cancro fastidioso. Una volta a settimana le mie vene fanno il pieno di un detergente per tappeti, un distillato napoletano delle acque dell'Adriatico. Sono calvo come un uovo, ma riesco ancora a muovermi e sono sgarbato coi gatti». Cheever si riferisce alla «National Medal for Literature», l'ultimo premio vinto, la sua ultima apparizione pubblica.
Fece un discorso breve e toccante che si concludeva così, chiarendo tante cose che anche questo libro aiuta a chiarire: «Col rischio mortale d'essere tacciato di narcisismo, vi dico che l'uomo che con i pattini da hockey va su e giù sul laghetto ghiacciato e che di tanto in tanto si ferma per gridare al mondo la bellezza del tramonto invernale sono io».Twitter @gianpaoloserino
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