Cultura e Spettacoli

Chi l’ha detto che la pace si può fare solo senza armi?

Chi l’ha detto che la pace si può fare solo senza armi?

e Andrea Mancia

Togli l’Oscar e non esiste premio più conosciuto al mondo. Il Nobel per la Pace batte tutti. Si è conquistato negli anni un’aurea di sacralità laica che lo rende l’onorificenza più famosa e insieme la più discussa. Un perfetto terreno di gioco per Jay Nordlinger, editorialista di punta della National Review, storico magazine conservatore newyorchese, fondato da William Buckley Jr. negli anni ’50. Nordlinger ha da poco dato alle stampe il suo nuovo libro: Peace, They Say. Ovvero Pace, dicono. Come recita il sottotitolo, una «Storia del premio Nobel per la pace, il più famoso e controverso premio nel mondo». A scrivere un libro così si correvano due rischi: uccidere di noia il lettore con una parata di biografie o scaraventarlo dentro una pomposa polemica sul significato delle parole «guerra» e «pace». Nordlinger invece ci consegna un volume di 460 pagine ben scritto, che illumina e spesso fa ridere. Perché Nordlinger è un opinionista politico brillante e un polemista colto, ma è soprattutto un uomo dai mille interessi e dalla grande curiosità.
Il Nobel per la pace, come gli altri premi Nobel, ha inizio nel 1901. Peace, They Say, dunque, copre un periodo storico superiore al secolo. C’è la prima guerra mondiale, la seconda, la guerra fredda, la guerra contro il terrore e tutto ciò che è accaduto nel mezzo. Tutto raccontato da una prospettiva particolare: attraverso una parata di persone diversissime, tutte speciali e a loro modo interessanti. Anche quelle che sono state dimenticate. Nordlinger infatti scrive di tutti i vincitori del premio, nessuno escluso. E a chi gli chiede se ne sia valsa la pena, risponde: «Beh, se sei arrivato a quel premio, comunque non puoi essere stato un imbecille». Alcuni di questi personaggi sono uomini di stato passati alla storia, come Roosevelt (Teddy) o Mandela. Alcuni sono stati eroi o santi, come Martin Luther King e Madre Teresa di Calcutta. Altri difficilmente catalogabili. Come scrive Nordlinger, «In quale categoria mettereste Arafat?». Altri ancora molto controversi come Kissinger, Gorbaciov, Gore e Obama.
Nordlinger li racconta tutti con passione, anche i più sconosciuti. Citando aneddoti e stralci dei discorsi che fecero quando ritirarono il premio: ognuno segno del proprio tempo. Come segno del proprio tempo sono stati anche grandi personaggi che, per motivi che Nordlinger considera inspiegabili, non hanno mai ricevuto il Nobel per la pace. Tra una sfilata di vincitori e l’altra, infatti, l’autore inserisce degli «interludi» dedicati ai premi mancanti. A uomini straordinari come Gandhi, tanto per fare un nome, che il comitato non ha mai scelto.
Ma il personaggio a cui Nordlinger sembra in assoluto più affezionato non è uno dei premiati, ma Alfred Nobel in persona, lo scienziato e imprenditore svedese che a quel premio ha dato vita e del quale l’autore fa forse il ritratto più bello. Il ragazzino geniale e malaticcio che brevettò più di 350 invenzioni oltre la dinamite, che fondò e diresse più di 90 industrie e laboratori in più di 20 paesi, che parlava diverse lingue correntemente tanto da rivolgersi a ogni interlocutore nella sua lingua madre, e che Victor Hugo un giorno definì «il più ricco vagabondo d’Europa».
Ma un libro sul Nobel per la pace scritto da Nordlinger non poteva solo essere una parata di ritratti, per quanto ben scritti e documentati. Peace, they say è un volume profondamente politico. Che si interroga sul significato della parola «pace» e su come sia potuto accadere che l’Occidente abbia tanto confuso e maldestramente sovrapposto questo concetto a quello di pacifismo, nella visione asservita ai dettami del politicamente corretto. Come scrive Nordlinger nelle conclusioni: «La causa della pace non può essere confusa con quella del pacifismo. E nemmeno con quella del disarmo. Questo è uno dei più grandi errori compiuti dal comitato del Nobel: considerare le armi malvagie in sé, senza considerare chi le possiede e per quali scopi». Proprio per questo negli annali del Nobel per la Pace non c’è spazio per un premio alla deterrenza. Teddy Roosevelt vinse il premio per la moderazione con cui diresse i negoziati tra Russia e Giappone e non per il fatto che parlava gentilmente, ma «portava con sé un grosso bastone». Winston Churchill non fu nemmeno preso in considerazione. E per lo stesso motivo non fu premiato Ronald Reagan, che vinse la guerra fredda senza sparare un colpo, ma forte della ritrovata superiorità militare degli Stati Uniti nei confronti del gigante sovietico. Peace, They Say rappresenta perciò uno spunto di riflessione anche per il comitato del Nobel. A cui Nordlinger consiglia di ascoltare Bob Dylan e la sua canzone Man of Peace: «Good intentions can be evil (...) You know that sometimes Satan come as a man of peace?» («Le buone intenzioni possono essere cattive (...) Lo sai che qualche volta Satana viene come uomo di pace?»).

Ma probabilmente sono solo parole soffiate nel vento.

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