Coleman, la libertà totale in un feroce assolo di sax

Inventò il free jazz, abbattendo ogni convenzione musicale. Fu una rivoluzione dai frutti incalcolabili in ogni ambito

Coleman, la libertà totale in un feroce assolo di sax

È morto a Manhattan all'età di 85 anni il sassofonista Ornette Coleman, uno dei più grandi innovatori nella storia del jazz. Il suo cuore ha smesso di battere ieri mattina, secondo quanto riportato dal New York Times . Coleman era nato a Fort Worth, Texas, nel 1930. Autodidatta, all'età di 14 anni aveva già imparato a suonare il sax e a leggere e scrivere musica. All'inizio degli anni Cinquanta si trasferì a Los Angeles. Con il suo album Free jazz: A collective improvisation , pubblicato nel 1960, Coleman diede il nome a tutto il movimento Free jazz, influenzando generazioni di musicisti.

Chiunque abbia l'età per ricordare il giorno in cui sentì parlare di Ornette Coleman (sax alto, tromba, violino, compositore e direttore di celebri gruppi jazz), ora alla notizia della sua scomparsa a 85 anni, impone a se stesso un rapido flash-back e parla in prima persona. Per quanto mi riguarda ho il privilegio - si fa per dire - di ritornare a uno dei miei anni di università a Padova, il 1959, quando già mi era stata affidata la direzione di un'associazione studentesca di concerti e io, che avevo contratto fin troppo presto il bacillo del jazz, cercavo di inserire la musica afro-americana fra Bach, Beethoven e Mozart. Una sera qualcuno, reduce da un viaggio in California, mi riferì di aver ascoltato per caso, a Los Angeles, due giovanissimi musicisti neri, Ornette Coleman e Donald Cherry, quest'ultimo non ancora quindicenne che - cito le parole precise, indimenticabili - «suonano oggi la musica del futuro».

Era vero, sebbene di lì a poco l'uscita anche in Italia del primo album discografico di Coleman (Something Else per la Contemporary) e i primi confronti con altri musicisti d'avanguardia (il pianista Cecil Taylor, per esempio) consigliassero di correggere almeno un poco le opinioni. Ma nessuno negò a Coleman il titolo di fondatore del free jazz, o jazz libero, o jazz informale. Per un singolare paradosso, più che dalla musica - dal confronto con Taylor, con il pluristrumentista Eric Dolphy o con altri ancora - lo scettro arrivò a Coleman da una sua dichiarazione, questa: «Se noi rapportiamo a una certa nota un accordo convenzionale, noi limitiamo la scelta della nota seguente». In altre parole, il tema e l'assolo di un brano del nuovo jazz possono, anzi devono, potersi muovere con piena libertà in ogni direzione.

Eppure, malgrado una rapida notorietà internazionale e i dischi a suo nome che si pubblicavano a tre o quattro ogni anno, la mancanza del consenso del grande pubblico di fronte a una musica senz'altro ardua e inattesa procurarono a Coleman gravi difficoltà economiche. Non credo di rivelare nulla che l'ambiente del jazz ignori dicendo che fu un pittore di fama, Guy Harloff che oggi non c'è più, ad aiutarlo per parecchio tempo durante gli anni Settanta. Coleman si era sistemato in un piccolo appartamento in Prince Street, nella Downtown di New York e lì, grazie ad Harloff, potè comporre musica con un minimo di serenità e con lo sguardo rivolto anche a ciò che il pubblico sembrava volesse. Scrivo «for a larger audience», per un pubblico più vasto, diceva. E invece, come succede all'inconsapevolezza degli artisti di genio, inventò un'altra musica nuova, una sorta di jazz imparentato con il rock ma in una chiave del tutto personale.

È qui, e non prima, che il grande Coleman viene accettato, intervistato, perfino osannato. A memoria, mettendo insieme brandelli di tanti colloqui che ho avuto con lui, posso citare le idee che confidava ai giornalisti che considerava amici perché per primi lo avevano capito e avevano creduto in lui. La svolta avviene verso la fine degli anni Ottanta, e comunque lui sostiene, esattamente come prima, che sul problema razziale al quale il jazz è legato a filo doppio, nulla è cambiato. E quindi, a suo modo, si pone fra le forze trainanti dei neri d'America come Charles Mingus, il già citato Cecil Taylor e Duke Ellington seppure fosse incline a molti compromessi. Sostiene Coleman che mentre si avvicina la fine del «secolo breve», l'uomo nero della strada sta male come prima. Come tutte le minoranze etniche, anche l'uomo nero degli Stati Uniti tende ad applaudire chi ce la fa, e quindi il borghese nero che si è integrato nel sistema e si è inserito nel credo americano della competizione.

E ancora. Coleman, che finalmente veniva invitato a tenere concerti in Europa, aveva capito di ricevere maggiori favori nel Vecchio continente piuttosto che in patria. Qui potrei quasi virgolettare le sue parole quasi profetiche, ma ovviamente me ne astengo. Il popolo nero, ha affermato più volte sapendo di essere ascoltato a dovere, purtroppo non è in sintonia con la musica che gli appartiene e che pure desidera, e forse non lo sarà mai. Le masse sono vittime di un'altra musica, preconfezionata e destinata al consumo, che ha lo scopo di mettere insieme ragazze e ragazzi, ma non per farli conoscere davvero fra di loro, bensì per dargli una comune frustrazione, distraendoli da qualsiasi contatto con il loro vero retroterra culturale. Si tratta del rock bianco e del rhythm and blues nero, che vanno posti sul medesimo piano. Questa musica è basata su tre strumenti, il sassofono, la batteria e la chitarra, specialmente la chitarra. Se togli la chitarra i ragazzi si smarriscono, non riconoscono più l'oggetto da consumare.

Si potranno organizzare migliaia di concerti di rock o di rhythm&blues: questo non cambierà il mondo, farà soltanto arricchire gli organizzatori. Non occorre altro per capire che abbiamo perduto un grande maestro, non soltanto di musica.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica