Questo che Pascal Salin scrisse nel 1985 è assai più che un libro sulla fiscalità. Anche se rappresenta una riflessione molto puntuale sulle varie forme di imposizione (diretta e indiretta, sui redditi e sui capitali, e via dicendo), questa riflessione a largo raggio sul rapporto tra il singolo e l’apparato tributario è anche, e soprattutto, un’attenta indagine di carattere filosofico-politico sui limiti e sulle incongruenza di quell’apparato politico-burocratico che nel corso del ventesimo secolo si è progressivamente imposto sulla società, sottraendo risorse e libertà.
Economista di scuola austriaca (e quindi assai influenzato dalla lezione di Mises, Hayek e Rothbard), nel volume Salin esamina le varie forme di tassazione nelle loro caratteristiche essenziali, evidenziando i difetti maggiori di questo o quel tributo. Ma soprattutto egli s’interroga sulla legittimità stessa dell’esproprio operato dall’apparato politico-burocratico a danno di chi produce e risparmia.
In questo senso, Salin non si limita – come pure è giusto fare – a denunciare i guasti di un prelievo esorbitante e quindi non gli basta ricordare la “curva di Laffer” e le conseguenze disastrose, anche per le casse dello Stato, di un’imposizione tributaria eccessiva.
Da liberale autentico, egli muove tutta la sua analisi dalla constatazione che “l’imposta è imposta” (e cioè espressione di un atto violento, di una costrizione) e che in una società civile bisogna cercare quanto più sia possibile di far crescere le istituzioni basate sul consenso, sulla volontarietà, sui rapporti di mercato.
Quella dell’economista francese, insomma, è una riflessione che finisce per valica
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