Nel 1927 il mondo culturale e politico francese venne messo a rumore dalla pubblicazione di un pamphlet dal titolo accattivante: La trahison des clercs. Lo aveva scritto un filosofo di origine ebraica, Julien Benda. Allora sessantenne, questi era già ben noto come autore di romanzi nei quali i trionfanti personaggi femminili rappresentavano emblematicamente la negatività del mondo moderno. Benda, però, non era solo un narratore a tesi, era un pensatore che si era proposto come l'anti-Bergson: nei suoi lavori aveva criticato i concetti fondamentali di Bergson e ne aveva liquidato la speculazione come frutto di una borghesia decadente e raffinata. Si era imposto come un moralista critico della società francese fondata sull'abbandono della chiarezza cristallina della ragione: nel Belphérog. Essai sur l'esthétique de la présente société française aveva condannato le tendenze estetiche francesi dei suoi giorni, risultato dell'assimilazione di posizioni speculative di provenienza germanica e aveva criticato l'espansione del lusso, il prevalere delle posizioni pratiche, il peso acquistato dalla donna nella vita sociale. Benda, insomma, si era qualificato come pensatore della negazione. Avrebbe osservato Adriano Tilgher: «non ha scritto che per negare. Per negare la carne, l'amore, la donna, la società contemporanea, il pensiero contemporaneo».
Qualunque cosa dicesse o pensasse, Benda era calato nella vita e nella lotta politica. Del resto la Francia tutta, nei primi decenni del secolo XX, era caratterizzata da un forte impegno politico degli intellettuali, che risaliva all'epoca del processo Dreyfus e alla crescente diffusione delle idee della Action Française. Proprio perché apparso nel bel bezzo di questo clima, La trahison des clercs - esplicita denuncia della solidarietà creatasi fra politica e cultura antidemocratica - fece l'effetto di un sasso gettato nelle acque di uno stagno. Benda esordiva costatando come nell'Europa del tempo, e in particolare in Francia, gli intellettuali erano diventati succubi di «una passione di razza o di classe o di nazione e molto sovente di tutte e tre». Da un cinquantennio, dalla fine del secolo XIX, i «chierici» - coloro cioè avrebbero dovuto limitarsi a cercare soddisfazione nell'esercizio dell'arte, della scienza o della filosofia - avevano ceduto al gioco delle passioni politiche diventandone, ne erano diventati, anzi, stimolatori.
Nel mirino di Benda entravano gli intellettuali di destra, i nazionalisti, da Maurice Barrès a Charles Maurras e quanti a loro erano o apparivano contigui da Paul Bourget a Charles Péguy. Il nazionalismo era la bestia nera di Benda. Lo si vide anche qualche anno dopo, nel 1933, quando lo scrittore pubblicò il suo Discorso alla nazione europea, ora edito per la prima volta in italiano da Aragno con una bella prefazione di Giulio Peveragno che sottolinea con acutezza «le contraddizioni del chierico Jules Benda». Il tema dell'Europa non era estraneo alla cultura politica del tempo. Richard Coudenhove-Kalergi aveva già formulato il progetto di Paneuropa, Ortega y Gasset aveva parlato di una unione politica per superare la decadenza dell'Europa, Emmanuel Mounier aveva ipotizzato un sistema federale. E a Roma, proprio l'anno precedente la pubblicazione del saggio di Benda, si era svolto il grande convegno internazionale sull'Europa promosso dalla Fondazione Volta. Parlando di Europa, però, Benda si muoveva su un terreno non politico né economico. Sosteneva che sarebbe stato possibile fare l'Europa solo adottando «un sistema di valori morali», caldeggiando la «vittoria dell'astratto sul concreto» e innalzando «le opere dell'Intelletto al di sopra di quelle della sensibilità». Il tutto in un mondo che parlasse la lingua francese. La sua idea di Europa era, insomma, quella di una realtà guidata, ancora una volta, da chierici che non avessero ceduto alle lusinghe della politica e, più in generale, alle perversioni intellettuali dell'Ottocento fondate sul «dinamismo» e sulla «irrazionalità creatrice» all'origine dei nazionalismi.
Benda lanciava i suoi strali contro gli intellettuali (non solo francesi) compromessi a destra, ma non si accorgeva della contraddizione fra la sua posizione speculativa e il suo operare. Egli, infatti, si era impegnato a fondo, ai tempi dell'Affare Dreyfus, e, ancor più, si sarebbe impegnato, negli anni trenta e nel secondo dopoguerra, sottoscrivendo manifesti della intellettualità di sinistra.
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