Il crimine è "malattia" Serve la giustizia?

Più si approfondiscono gli studi sul cervello, più diventa labile il concetto di «capace di intendere e volere». E c’è il rischio di un ritorno lombrosiano

Il crimine è "malattia" Serve la giustizia?

Delitto e castigo: la base del diritto. Ragione e azione: la base presunta della libertà umana. Volontà e pulsioni: la base della psicologia, come la conoscono i più. E questi tre binomi normalmente sembrano potersi sovrapporre abbastanza facilmente. Tant’è che per essere punibili di un delitto, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici del mondo, bisogna essere considerati capaci di intendere e di volere, non sottoposti, durante la sua esecuzione, a cause di forza maggiore. Ecco perché se una persona in preda a uno stato allucinatorio picchia un vicino di casa credendolo Bin Landen finisce all’ospedale psichiatrico e non in prigione, o un cassiere di banca che apre la cassaforte sotto la minaccia di una pistola non è un ladro. Negli ultimi vent’anni però la possibilità di stabilire solidi confini, tra lucida volontà di far del male e pulsione incontrollabile, è diventata più labile. Un esempio noto agli esperti del settore: nel 1999 un tranquillo insegnante della Virginia, che mai aveva dato segni di comportamenti devianti, iniziò a molestare la figliastra. Venne immediatamente denunciato, condannato, allontanato dalla famiglia e dalla scuola. Ogni tentativo di riabilitazione all’inizio sembrò vano... Poi all’improvviso i medici gli diagnosticarono un tumore, comprimeva la parte destra del lobo frontale (zona del cervello dove si trovano le funzioni superiori di cognizione). Appena operato il suo carattere tornò normale, scomparvero le tendenze pedofile, scattò il senso di colpa... Tornò a casa. Meno di due anni dopo l’irrefrenabile impulso si presentò di nuovo. Fu un enorme trauma per la famiglia, però il professore si recò immediatamente all’ospedale... Il tumore era tornato, lo operarono di nuovo, «guarì» immediatamente.
Ma se in questo caso, grazie alle nuove tecnologie, la differenza tra sanità e malattia è immediatamente e (quasi) univocamente percepibile, in altri le nuove cognizioni provenienti dalle neuroscienze creano situazioni ambigue. Ci sono scienziati che cercano di dimostrare che la presenza di una variante genetica (localizzata nel gene MAOA) aumenta la propensione alla violenza.
Ma allora scatta il dilemma. Il giudice che deve fare? Considerare questa variante genetica un’attenuante, dare base scientifica alla frase di Dostoevskij: «Il criminale, nel momento in cui compie il delitto, è sempre un malato»? Oppure all’estremo opposto della scala del diritto «scietifizzato», dove si preferisce la sicurezza dei molti alla tutela dei pochi, si deve decidere che tutte le persone che hanno quella caratteristica devono essere sorvegliate o private del diritto di portare armi? Sono domande difficilissime e che per il momento non sfiorano la mente dei legislatori, spesso in tutt’altro affaccendati, però rischiano di diventare sempre più pressanti visto il ritmo del progresso scientifico... Ecco il senso del saggio di Andrea Lavazza (filosofo esperto di neuroscienze) e Luca Sammicheli (giurista e psicologo) intitolato Il delitto del cervello (Codice edizioni, pagg. 280, euro 15; sarà presentato oggi, alle 18, alla Feltrinelli di via Manzoni a Milano). I due hanno voluto indagare il complesso rapporto tra il diritto della società a difendersi dai criminali e ciò che ci dice la scienza sulla responsabilità del singolo. E i discrimini sono sottili.
Come spiega Andrea Lavazza: «La scienza ci dice che dobbiamo cambiare il nostro modo di intendere il libero arbitrio... Molti dei nostri processi cerebrali sono più automatici di quanto siamo soliti immaginare. Le nostre capacita decisionali molto meno razionali di quanto sembrino. Sono fattori in cui allo stato attuale delle nostre conoscenze il giudice deve decidere ancora caso per caso... non c’è ancora una giurisprudenza». Però esistono già dei rischi: «Sì, per come la vedo io gli scienziati troppo deterministi rischiano di riproporre teorie di stampo lombrosiano... o comunque di trascurare fattori come quelli ambientali nel delineare la propensione al delinquere».
Però entrambi gli autori, da scienziati, pur difendendo l’esistenza di ampi margini di autodeterminazione dell’individuo e rifiutando determinismi genetici, pensano che il diritto debba prepararsi a una corsa in avanti: «Se sulla genetica del cervello siamo agli inizi, in altri settori di studio siamo più avanti. Invece ciò che le persone pensano nella loro “psicologia ingenua” su come si determinino nel cervello i concetti di Bene e Male è rimasto legato a concetti vecchi... È inevitabile che il modo di giudicare cambi». Un esempio? Per Maometto a un ladro si tagliava la mano.

Se qualcuno gli avesse spiegato l’esistenza della cleptomania magari ci avrebbe pensato su. Pare esistano molte cleptomanie che non siamo ancora abituati a vedere, ma i neuroscienziati iniziano a scorgerle... Forse anche la giustizia dovrà levarsi la benda e smettere di essere ceca.

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