La lettera alla moglie Annalori, quasi un testamento morale, mette i brividi e andrebbe studiata nelle ore di educazione civica, materia che il governo vuole reintrodurre nel nostro disastrato sistema scolastico. L'avvocato Giorgio Ambrosoli sa che il destino lo aspetta, anche se non sa quando arriverà, e lo scrive ad Annalori senza tanti giri di parole, pur cercando di non spaventarla: «Anna carissima....non ho timori per me perché non vedo altro che pressioni per farmi sostituire, ma...il fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non tranquillizza affatto. È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica per fare qualcosa per il Paese... Per il Paese e non per i partiti».
L'incarico, naturalmente, è quello di liquidatore della Banca privata italiana che il finanziere siciliano Michele Sindona ha portato sull'orlo del disastro, gestendo capitali e rapporti pesantissimi, da Cosa nostra alla massoneria. Ambrosoli ha iniziato a scavare con tenacia e, obiettivamente, anche con capacità investigativa, portando piano piano a galla quella rete perversa di relazioni e affari che disegnano un sistema di potere trasversale. E ha capito.
Così il 25 febbraio 1975 prende carta e penna e invia quel messaggio consapevole e struggente ad Annalori, sposata nella sua Milano, nella centralissima chiesa di San Babila, all'inizio degli anni Sessanta, e da cui ha avuto tre figli: Francesca, Filippo, Umberto che ha proseguito l'impegno pubblico del padre.
Ambrosoli si sente solo. Sempre più solo. Abbandonato da chi dovrebbe proteggerlo e invece lo ha lasciato senza scudo davanti a quella piovra dai troppi tentacoli. L'establishment sta tutto o quasi con Sindona. Hanno provato a blandirlo. Hanno provato a corromperlo. Hanno provato a minacciarlo. Niente. Lui va avanti imperterrito per la sua strada accidentata, sempre più pericolosa. Scava. Scava e scava ancora. È ormai arrivato alla fine, o quasi, del proprio faticosissimo lavoro.
I dissesti e i tracolli delle banche portano spesso in dote morti eccellenti, suicidi che forse sono omicidi mascherati da infilare nello straripante armadio dei misteri e delle dietrologie italiane: pensiamo, per citare solo un caso recente, alla fine oscura di David Rossi, ex capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, precipitato dalla finestra del suo ufficio la sera del 6 marzo 2013. Un giallo che non si riesce a risolvere, fra perizie, controperizie, ipotesi di ogni genere. La storia è più banale ed è stato lui a buttarsi giù o una manina l'ha spinto o, peggio in uno scenario ancora più sofisticato, l'ha come costretto a quel tuffo fatale?
Con Ambrosoli il destino è crudele, ma lento, e la resa dei conti arriva la sera dell'11 luglio 1979, quattro anni e mezzo dopo quel biglietto drammatico alla consorte.
La famiglia è in vacanza a Levanto, in Liguria, lui esce a cena con alcuni amici, poi sotto il portone di casa, nella centralissima via Morozzo della Rocca, s'imbatte nel killer che lo sta aspettando. Quattro colpi e Ambrosoli muore a 46 anni. È mezzanotte circa. Tardi. Troppo tardi anche per le cronache notturne dei giornali. La notizia, in una città funestata da un'interminabile stagione di lutti per lo più opera di terroristi, arriva sulla prima pagina del Giornale venerdì 13 luglio.
L'apertura del quotidiano è dedicata alle manovre del leader socialista Bettino Craxi per formare un nuovo governo: «Craxi spera di farcela», è il titolo asettico, come usava allora, per spiegare il tentativo in atto. In realtà, il valzer proseguirà portando un altro protagonista sul palco: Francesco Cossiga. Sarà lui, di lì a qualche giorno, a formare l' esecutivo.
Sulla destra del foglio, invece, ecco i baffi d'altri tempi di quel servitore dello Stato mandato allo sbaraglio e il puntuale resoconto dell'esecuzione firmato da Ignazio Mormino.
Una seconda immagine mostra i fiori deposti nella giornata del 12 luglio sul marciapiede, nel punto in cui il legale è caduto. Un set angosciante, riproposto troppe volte in quei mesi di sangue: lo stesso che rivedremo il 28 maggio 1980, meno di un anno dopo, non lontano da via Morozzo della Rocca, in via Salaino, teatro del martirio di Walter Tobagi.
L'epoca è fatta così, satura di violenza e di una barbarie feroce. Il 2 giugno 1977 le Brigate rosse hanno sparato pure a Indro Montanelli, gambizzandolo. E le polemiche velenose degli ultimi mesi, il raid vandalistico contro la sua statua, fanno capire che il germe maligno dell'ideologia è ancora sorprendentemente vivo dopo più di quarant'anni.
Azioni efferate che hanno matrici diverse, lontane fra loro come la stella a cinque punte dei rivoluzionari e le coppole dei boss mafiosi, ma hanno un tratto inquietante in comune: le vittime non hanno avuto l'appoggio e la tutela che dovevano essere loro garantiti. Come è accaduto a due passi da lì, in via Cherubini, al commissario Luigi Calabresi, prima linciato verbalmente e poi ammazzato il 17 maggio 1972.
Colpisce, sulla prima pagina del Giornale del 13 luglio di quarantuno anni fa, un box con la reazione sdegnata di Sindona dalla sua suite dell'hotel Pierre di New York: «Nessuno deve collegarmi a quest'atto di viltà». E invece è lui il mandante, l'uomo che ha pagato William Joseph Aricó, il killer arrivato a Milano dall'America. È tutto semplice, troppo semplice, anche se dietro, all'ombra della P2, delle logge e di pezzi della grande criminalità, i rapporti obliqui tessuti da Sindona sono innumerevoli e a tratti indecifrabili.
Ai funerali, le istituzioni latitano. Sono rimasti vicino ad Ambrosoli solo i vertici della Banca d'Italia, Paolo Baffi e il capo della Vigilanza Mario Sarcinelli poi incredibilmente arrestato per una vicenda senza capo né coda, Ugo La Malfa e, solo fino a un certo punto, il banchiere Enrico Cuccia.
«Qualunque cosa succeda - si chiude la lettera ad Annalori - comunque, tu sai cosa devi fare. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto». La coerenza, specchio di una libertà interiore al servizio del bene comune che nessuno è riuscito a portargli via.
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