Il devastante piacere della libertà assoluta

Il grande scrittore rock Greil Marcus racconta la band di Jim Morrison brano per brano. Ecco "Light my fire"

Il devastante piacere della libertà assoluta

Per gentile concessione dell’editore Odoya pubblichiamo uno stralcio di The Doors , in uscita oggi (pagg. 208, euro 16). Lo statuni­tense Greil Marcus è considerato il maggio­re scrittore rock vivente. È autore, tra l’al­tro, di Mystery Train.

«Ragazzi, perché non fate un gran bel sorriso quando sie­te in scena?» disse Ed Sullivan dietro le quinte il 17 settembre 1967, poco prima che i Doors si presentassero davanti alle tele­camere per suonare Light My Fire . «Non c’è motivo di essere imbronciati, mi sono spiega­to? ».«Be’,noi siamo un gruppo imbronciato» rispose Ray Man­zarek. O perlomeno è quel che fece nel 1991 nel film The Doors di Oliver Stone. The Ed Sullivan Show fu il luogo in cui avvenne il primo scandalo nazionale dei Doors, o piuttosto il primo scandalo di successo; co­me era già ca­pitato prima di loro a Bob Dylan e ai Rol­ling Stones, chi dirigeva il programma voleva che modificasse­ro, in diretta televisiva, ciò che avrebbe­ro cantato. A Bob Dylan, nel 1963, toc­cò con Talkin’ John Birch So­ciety Blues , e lui alzò i tac­chi e se ne an­dò. Ai Rolling Stones toccò nel 1967, pri­ma dei Doors, con la famosa Let’s Spend The Night To­gether ; Mick Jagger e Keith Ri­chards fecero quello che gli era stato detto: cantarono Let’s Spend Some Time Together , con Mick che spalancava gli oc­chi per mostrare al pubblico che si prendeva gioco della co­sa.

Ai Doors, la Cbs chiese in teo­ria di cambiare il verso «Girl we couldn’t get much higher» in «couldn’t get much better». La stazione televisiva non poteva trovare una soluzione meno orecchiabile di questa, ma era come se avessero suggerito a Jim Morrison di cantare la for­mula chimica del litio. In teo­ria, il resto della band era pron­ta ad accontentarli, in fin dei conti se per gli Stones era anda­ta bene così... La posta in gioco era alta; c’erano altre date sul piatto. In teoria, Morrison dis­se ok. È difficile credere che Manzarek, John Densmore e Robby Krieger non sapessero quello che sarebbe accaduto. Densmore dà il via all’esibizio­ne con un colpo deciso di batte­ria; come disse qualcuno a quei tempi, era difficile immaginare che si potesse picchiare più for­te. Dopodiché ogni colpo di bat­teria verrà eseguito sempre troppo forte. Non è più ritmo. È irritazione, o paura. Morrison si addentra nel pezzo languida­mente, senza tensione alcuna, nessuna premonizione.

Al contrario di Elvis Presley nella sua terza e ultima appari­zione all’Ed Sullivan Show, nel 1957, l’unica volta che fu ripre­so dalla vita in su (con Elvis che si guardava di proposito le parti basse, come se la telecamera in quel momento stesse nascon­dendo qualcosa che lui non ave­va mai mostrato quando veni­va ripreso da lontano, quando veniva ripreso dalla testa ai pie­di mentre lui e il suo gruppo si esibivano con slancio e rilassa­tezza), Morrison non si lasciò andare ad ammiccamenti di sorta.

Si limitò a usare il verso della canzone come un trampo­lino di lancio.«Girl we couldn’t get much hiiiii», cantò lui, fa­cendo sparire il resto di higher, lasciandolo indietro come se non ci fosse mai stato, e anche se la parola oltraggiosa era sta­ta appena accennata, andando in diretta nazionale, avresti cre­duto che in effetti poteva anda­re anche bene così: poteva an­dare bene alla Cbs e poteva es­sere un compromesso onorevo­le per i Doors. «figh-yarrrrgh! yeah!» urlò Morrison appena un minuto dopo l’inizio della canzone, poco prima che Man­zarek cominciasse un assolo di sette secondi comprimendo il pezzo alla versione del singolo, come se Morrison stesse com­pensando per qualcosa che non c’era.
Il suo urlo era eccitante. L’unica cosa eccitante fino a quel momento. Dopo l’assolo di Manzarek, Morrison riprese
a cantare di nuovo dolcemen­te.

Cantò il primo verso. Ignorò la melodia, leccò la parola «fire!» come avrebbe fatto Elvis se fosse stato al suo posto, se avesse chiuso il suo Elvis Is Back! , il primo album nel 1960 dopo il suo ritorno dal servizio di leva, con Light My Fire anzi­ché Reconsider Baby (come se, visto come Elvis aveva interpre­tato il pezzo di Lowell Fulson, infondendo ogni parola di un calore che non si è mai raffred­dato, ci fosse qualche differen­za). Nel ritornello Morrison ur­lò di nuovo su «fire!». E poi ogni pausa venne rispettata; ascol­tandolo è come se si strappasse i vestiti di dos­so. La sua vo­ce si fa rauca, dura, incalza minacciosa, finché non esplode. Den­smore trova un suo ritmo, e lo scandisce anche per Morrison.

È una canzo­ne diversa, una serata di­versa, un po­sto diverso; un pubblico diverso è chia­mato ad assi­stere. Adesso ogni respiro si fa più inten­so, risale dal profondo, è il respiro che prendi prima di fare un tuf­fo, ogni respi­ro è forte e improvviso, è pieno di vendetta e lussuria come il momento iniziale in cui Den­smore ha picchiato la bacchet­ta sulla pelle del tamburo. La pronuncia di Morrison si fa più rozza, le parole vengono moz­zate perdendo l’inizio e la fine, il cantante corre sulla canzone superandola, la canzone lo in­segue come un’onda, poi si in­contrano su un infiammato «hi­gher » di Morrison, che qui, con la canzone che prende piena­mente corpo, non ha una porta­ta musicale o morale diversa da qualsiasi altra parola, nota, fra­se o suono; il suono, in quel pre­ciso istante, della libertà.

È sconvolgente quanto piacere possa dare la libertà: «Come on!» urla tra sé e sé Manzarek sull’ultimo ritornello.Ora sono dall’altraparte. Dopo un’esibi­zione del genere, che bisogno c’era di ritornare a cantarla?

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