«Ho un sogno - dichiarò al mondo Martin Luther King nel discorso tenuto a Washington il 28 agosto 1963, uno dei più celebri di tutti i tempi - che questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il significato del suo credo: Noi riteniamo queste verità per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali. Ho un sogno che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi potranno sedersi insieme al tavolo della fratellanza». Il pastore afroamericano di Atlanta era, in quel giorno, la più alta incarnazione della civiltà del diritto, l'erede spirituale di Locke, di Montesquieu, di Benjamin Constant, di John Stuart Mill. Egli rivendicava l'eguaglianza dinanzi alla legge a fondamento imprescindibile della libertà dei moderni. Le discriminazioni razziali, l'apartheid, i privilegi sociali, le differenze di status riconosciute dalle leggi non dovevano avere alcun valore e nessuna Rosa Parks sarebbe stata più tenuta a cedere a un bianco il suo posto in autobus, com'era capitato al quattordicenne Martin Luther rimasto in piedi per 140 km nel viaggio a Dublin (Georgia).
È un mondo quello della «marcia per il lavoro e la libertà» che sembra lontano dal nostro non di mezzo ma di due secoli. Da allora, infatti, il tema dei diritti civili è stato sempre più stravolto e i diritti civili si sono mutati in diritti sociali ovvero in rivendicazioni attive a sostegno delle categorie sociali e delle appartenenze (etniche, religiose, di genere) più deboli. La fine delle discriminazioni negative è divenuta, così, l'alba delle discriminazioni positive e compensative sicché non c'è gruppo, che abbia subito violenze e arbitri ingiustificati, che non voglia essere, per così dire, «risarcito» magari a spese della collettività. Nella filosofia di M.L. King, le «tribù» dovevano venir cancellate: non il colore della pelle ma l'acquisto del biglietto di viaggio o il superamento della prova di ammissione facevano salire sull'autobus ed entrare all'università. Nella logica che, a macchia d'olio, sta invadendo anche i paesi più liberali dell'area euro-atlantica, l'affronto che determinati gruppi sociali hanno vissuto in passato diventa un titolo da far valere in tutti i luoghi dell'interscambio sociale.
La grande promessa dell'era cristiano-illuministica (da oggi in poi sarete considerati e giudicati come singoli individui: le vostre credenze religiose, le vostre famiglie, la vostra educazione riguardano la vostra privacy) appare, ormai, come vuoto formalismo, in considerazione del fatto che non nasciamo tutti eguali, ma alcuni con la camicia ed altri nudi, alcuni coi genitori alle spalle e altri senza, alcuni dotati da natura di qualità come la bellezza, la forza, l'intelligenza ed altri privi. Per rimediare alle ingiustizie della storia e della natura, l'eguaglianza tende a divorziare de facto dalla libertà e poiché assicurarla a tutti è, per dirla con De Gaulle, un vaste programme, si mettono nelle mani di alcuni poteri immensi - gli unici realisticamente in grado di raddrizzar le gambe ai cani - e si finisce, con George Orwell, per creare categorie di eguali (governanti, magistrati, predicatori) «più eguali» delle altre.
I classici del liberalismo avevano lucidamente intravisto il pericolo. Nella Democrazia in America del 1835, Tocqueville aveva rilevato come l'individualismo liberale fosse minacciato da quanti volevano instaurare su questa terra più il regno dell'eguaglianza che quello della libertà, un obiettivo servito oggi da una giustizia sociale che non si propone più di tribuere cuique suum - di dare a ogni individuo quel che gli spetta - ma di riconoscere le «differenze» e assicurare un trattamento peculiare a ogni uomo e donna solo in quanto parte di qualcosa.
«Vi è una passione maschia e legittima per l'eguaglianza che spinge gli individui a voler essere tutti egualmente forti e stimati. Questa passione tende a elevare i piccoli al rango dei grandi. Ma nel cuore umano si può trovare anche un gusto depravato per l'eguaglianza che porta i deboli a voler degradare i forti al loro livello, e che riduce gli uomini a preferire l'eguaglianza nella schiavitù alla diseguaglianza nella libertà». Che si sia tutti schiavi potenziali del despota - delegato a vendicare gli umili, è preoccupazione che non sfiora quanti dicono di voler «prendere sul serio» i diritti.
Di recente Angelo Panebianco ha denunciato il paradosso italiano per cui: «si inveisce contro la politica ma non per liberarsi dagli eccessi di controlli statali che essa impone alle nostre vite. Le si chiede, al contrario, di intensificare quei controlli. L'antipolitica, che è il sentimento dominante fra gli italiani, si risolve, paradossalmente, in una richiesta di più politica e di più Stato».
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