In quella strana coppia, la donna era lui, e l'uomo era lei. Lui era Truman Capote (1924-84), lei è Harper Lee. Sì, lo è ancora, Harper Lee, anche se i suoi secondi quarant'anni abbondanti li ha trascorsi e continui a trascorrerli in un isolamento quasi maniacale, interrotto soltanto per inviare a Oprah Winfrey una lettera anti-ebook uscita sulla rivista O nel 2006 e per ritirare dalle mani di George W. Bush la «Presidential Medal of Freedom» nel 2007. Invece a ricevere la National Medal of Arts, nel 2010, non c'era. Peccato, vedere il presidente nero degli Stati Uniti d'America premiare la scrittrice bianca autrice del libro che fece esplodere cinquant'anni prima, nel proprio Paese e nel resto del mondo, la bomba antirazzista sarebbe stato un bello spettacolo.
Quando, nel 1960, uscì To Kill a Mockingbird («Uccidere un usignolo»), la «lei-lui» Harper e il «lui-lei» Truman erano una coppia di fatto da un bel po', visto che si conoscevano dall'infanzia. Era stato Truman a consigliare ad Harper (il suo vero nome era Nelle, ma Nelle Lee non le suonava bene, troppo dolce...) di lasciare Monroeville, cittadina d'origine di entrambi, nel profondo Alabama, per andare a vivere e a scrivere a New York. E sarà Harper a lavorare come ragazza di bottega dietro le quinte per mettere in scena la colossale operazione mediatica che va sotto il titolo di In Cold Blood, cioè A sangue freddo (1966), prima docu-romance-fiction della storia. Nel frattempo, però, «lei-lui» vinse il Pulitzer, e «lui-lei» iniziò a covare una sotterranea gelosia che, a scoppio ritardato, condusse alla rottura.
Come J.D. Salinger, la Lee è dunque sparita dai radar del mondo. Protesta? Stanchezza? Polemica? No, le va di fare così, e poi gli anni le pesano, nella casa di riposo che la ospita dopo il ritorno definitivo a Monroeville, la vera Macomb di Il buio oltre la siepe, il suo unico romanzo, il suo unico «figlio» letterario datato 1960 che ancora oggi vende un milione di copie l'anno e da cui due anni dopo Robert Mulligan trasse l'omonimo film (da lei elogiato) con Gregory Peck nei panni di Atticus Finch, cioè del padre di Harper, Amasa Coleman Lee, e Mary Badham in quelli della sua figlioletta Jean Louise detta «Scout», fragile e manesca replica in carta-carbone proprio della scrittrice. Il botto del combinato disposto romanzo+film mise a soqquadro gli anni Sessanta come i discorsi di Martin Luther King avevano messo a soqquadro i Cinquanta. Del resto il razzismo, soprattutto negli stati meridionali, continuava a essere un virus letale, e fu proprio quella ragazza dai tratti e dai modi mascolini a gettare il sasso (quasi) definitivo nello stagno, smuovendo le acque delle coscienze.
«Ti sei mai chiesto - si rivolse Harper molti anni dopo all'amico reverendo Thomas Lane Butts - perché non abbia mai scritto un altro romanzo?». «Certamente - rispose lui - come milioni di altre persone». «Innanzitutto - disse lei - per niente al mondo mi esporrei di nuovo a quel tipo di clamore e pubblicità. Apprezzo troppo la mia privacy. E poi, perché provare a ridire un'altra volta ciò che avevo già detto?». Lo scambio di battute è riportato in una nota di Oltre la siepe. Alla ricerca di Harper Lee (Edizioni dell'Asino, pagg. 96, euro 13, tra poche settimane nelle librerie), ficcante saggio-inchiesta apparso su Nuovi Argomenti fra il 2010 e il 2011 in cui Silvia Giagnoni ricostruisce il puzzle-Lee. Scoprendo che, tutto sommato, l'Alabama di oggi non sarà l'inferno dei neri che era ai tempi di quella storia, collocata negli anni Trenta, né il purgatorio dei niggers degli anni Sessanta. Ma non è neppure un paradiso... «Nella società post-razziale americana, il razzismo fa ancora parte del Sistema».
Il negro Tom Robinson (Robinson, come Robinson Crusoe, naufrago nel deserto dei sentimenti umani, laddove l'eroe di Daniel Defoe era naufrago nel mare della solitudine...) innocente ma accusato di aver «approfittato» della ragazza bianca Mayella Ewell, trova nel rassicurante, paterno e liberal per natura più che per scelta politica avvocato Atticus Finch un accorato difensore ma... non-salvatore. Perché la sentenza gli è avversa, e l'happy end sarebbe stato quasi fantascienza. «Nel libro - scrive Giagnoni - spesso si traduce in una lucida illustrazione quella che Don Lorenzo Milani chiamava la teoria razzista delle attitudini. Per Scout, invece nessuno nasce sapendo già le cose».
Beata innocenza. E anche saggia innocenza. La piccola Scout, guardacaso coetanea di Harper, avendo sei anni nel '32, orfana, con il fratello maggiore Jem, della mamma, intuisce che i tempi non sono maturi per l'emancipazione dei negri. E la sua mamma putativa-sorellona Harper, tutto sommato, non era la Giovanna d'Arco dei diritti civili: voleva solo «essere la Jane Austen dell'Alabama del Sud». Così attinse, come il suo amico «lui-lei» Truman Capote, da un fatto di cronaca nera, anzi «negra», il caso Walter Lett.
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