Ecco perché è stupido odiare i ricchi

L'inedito del grande economista liberale. Il risentimento verso imprenditori e capitalisti danneggia tutti e spalanca le porte agli abusi di potere

Pubblichiamo uno stralcio de "In nome dello Stato" (Rubbettino, pagg. 212, euro 12, 90; prefazione di Lorenzo Infantino; traduzione di Enzo Grillo) del grande economista liberale Ludwig Von Mises (1881-1973). Il testo, inedito in Italia, dal punto di vista cronologico precede e segue di poco lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Mises interpreta la ascesa di Hitler nel quadro dell'avversione nei confronti della libertà individuale e del mercato, tipica di tutti i membri della famiglia del totalitarismo. L'analisi storica quindi lascia il passo alla analisi della mentalità anticapitalistica. Ed è da questa parte del libro che preleviamo il capitolo offerto ai nostri lettori.

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La riforma non deve co­minciare dallo Stato, dal governo e dalla vita pubblica. Ciascuno de­ve cominciare da se stesso e deve essere il primo a liberarsi dal gio­go del dogmatismo, che gli impe­disce di usare liberamente le sue capacità mentali. Ogni singolo in­dividuo deve sforzarsi di affran­car­si dalle frasi fatte e dalle formu­le che oggi considera verità intoc­cabili. Ogni singolo individuo de­ve riconquistare­con un duro lavo­ro il diritto di poter dubitare di tut­to, e di non riconoscere nessuna autorità che non sia quella del pensiero logico. Per conquistare questa libertà, occorre superare le inibizioni emotive che di solito offuscano il pensiero. Bisogna ac­ca­ntonare il risentimento e la pre­sunzione.

Il mercato dell’ordine sociale capitalistico è democrazia dei consumatori. Gli acquirenti sono sovrani, e la loro domanda – o la mancata domanda – orienta i mezzi di produzione nelle mani di coloro che sanno impiegarli in maniera da soddisfare i desideri e le aspettative dei consumatori nel miglior modo possibile e al mi­nor prezzo possibile. Che uno di­venti più ricco e l’altro più povero è un risultato del comportamento dei consumatori. Non è il crudele consumatore a rovinare l’impren­ditore poco capace, ma l’acqui­rente che compra dove viene ser­vito meglio e a minor prezzo. Solo il consumatore domina nell’eco­nomia capitalistica. Gli imprendi­tori e i capitalisti sono i suoi servi­tori, la cui unica preoccupazione è quella di individuare i desideri del consumatore e cercare di sod­disfarli con i mezzi disponibili. Im­prenditori e capitalisti nascono da un ripetuto, quotidiano proce­dimento di scelta; essi possono perdere in ogni momento la loro ricchezza e la loro posizione pre­minente, se i consumatori smetto­no di essere loro clienti. È assurdo che il consumatore abbia invidia per la ricchezza delle persone che egli ha fatto ricche, perché ha pre­teso i loro servizi. Il consumatore danneggia se stesso quando chie­de provvedimenti contro il «big business». Chi invidia la ricchez­za del proprietario dei grandi ma­gazzini, compri pure dove ottiene una merce più scadente pagando­la di più.

Tutti oggi vogliono godere di più, consumare di più, sprecare magari di più e vivere meglio, ma poi invidiano il successo di colo­ro che hanno fatto del loro meglio per soddisfare questi loro deside­ri. Offende l’amor proprio e l’or­goglio del filisteo il fatto di dover ammettere – sia pure controvo­glia – che altri sono stati più bravi a procurare tutti quei beni mate­riali che fanno ricca la vita esterio­re. Lo umilia il fatto di essere riu­scito a occupare nella competizio­ne del mercato solo una posizio­ne modesta. E allora, per rimuove­re questo malumore, esco­gita una particolare giu­stificazione. Egli non è più incapace dell’im­prenditore di successo, che si è arricchito; è so­lo una persona per be­ne, ed è più onesto di quei signori di gran successo, ma privi di scrupoli che hanno usato pratiche delin­quenziali che egli, per rimanere one­sto, ha sempre di­sprezzato. Insom­ma – pensa il no­stro fariseo – io so­no bravo e capace quanto quelli che sono diventati ricchi; ma grazie a Dio sono moral­mente migliore di loro, che sono il peggio, e sarebbe doveroso da parte dell’autorità punirli per le loro malefatte, se­questrando la loro ric­chezza, illecitamente acquisita.

Se il governo pro­cede contro i ric­chi borghesi, può essere sicuro dell’applauso della massa. Que­sta­è una cosa che tanto i demago­ghi e i tiranni dell’antichità, quan­to i satrapi, i califfi e i cadì d’Orien­te e i dittatori di oggi hanno sem­pre saputo. Quando un governo non sa far diventare ricche le mas­se, allora è il caso di far diventare poveri i ricchi. Tutte le volte che il filosovietico occidentale si è visto costretto ad ammettere che nella Russia dominata da Lenin e da Stalin le masse vivevano in mise­ria, ha sempre giocato la sua ulti­ma carta: sì, è vero, questi russi moriranno anche di fame e di stenti, ma sono più felici dei lavo­ratori occidentali, perché si sono presi la soddisfazione di vedere che gli ex «borghesi» russi se la passano peggio di loro. I francesi hanno preferito perdere una guer­ra anziché permettere agli im­prenditori dell’industria bellica di fare profitti.
L’essenza del risentimento sta appunto in questo: essere prigio­nieri dei sentimenti di invi­dia, di vendetta e di gioia perversa per il male altrui, quantunque se ne riceva un danno per se stessi. Non meno funesti degli effetti del risenti­mento sono gli effetti della pre­sunzione, che impedisce agli indi­vidui di ammettere il diritto altrui di interloquire.

Come il risenti­mento, anche l’intolleranza che vuole imporre solo la propria vo­lontà, e perciò invoca il dittatore affinché realizzi ciò che la propria volontà pretende, non è un segno di forza ma di debolezza e impotenza.

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