Faletti, l’uomo che traduceva se stesso

L’autore di "Io sono Dio" ha tentato di rispondere ai dubbi sollevati dal "Giornale", ma è solo riuscito ad andare sopra le righe. Però gli inspiegabili calchi dall’inglese restano. E ne abbiamo scoperti altri

Faletti, l’uomo che traduceva se stesso

Ieri mattina il telefono mobile ha iniziato a squillare sul mio tavolino da notte, io avrei voluto girare attorno al cespuglio e non rispondere: invece l’ho fatto. Dubbi?
Allora traduco: ieri mattina il cellulare ha iniziato a squillare sul comodino, io avrei voluto tergiversare e non rispondere: invece alla fine ho risposto. Era un amico che mi avvisava di una lunghissima risposta di Giorgio Faletti, pubblicata sul quotidiano La Stampa, a un articolo de il Giornale del 5 agosto. In quell’articolo avevamo fatto notare, citando anche alcune autorevoli traduttrici dall’inglese, come nell’ultimo romanzo di Giorgio Faletti, Io sono Dio, ci fossero delle espressioni così americane da risultare ben poco comprensibili in italiano (esattamente come quelle utilizzate nella prima frase di questo articolo). Abbiamo anche puntualizzato che la questione aveva avuto una certa eco sui blog (come Italians di Beppe Severgnini) mentre, invece, la carta stampata aveva fatto finta di niente.
Bene, dopo l’intervento del Giornale si sono occupati della questione anche il Corriere e il settimanale Oggi. Abbastanza per far arrabbiare Faletti. Una paginata per dire che le traduttrici che hanno osato commentare le stranezze del suo libro lo hanno fatto per godersi «i loro cinque minuti di popolarità», aggiungendo, e l’espressione rivolgendosi a due signore poteva essere evitata, che si tratta solo di una «querelle estiva e premestruale», dettata da invidia. Non bastasse: si è lanciato in un lunghissimo peana a se stesso per rendere manifesto che non esiste nessuno scrittore fantasma che ha scritto il romanzo al posto suo. Di più: «Se a un romanzo giallo... l’unico appunto che può essere mosso è l’uso di cinque frasi, giudico il risultato estremamente positivo».
Ecco, senza cattiveria (i precedenti libri di Faletti lo scrivente li ha letti volentieri), ci tocca far notare che la questione non si limita a cinque frasi. Le espressioni che hanno solo una remota parentela con l’italiano sono sparpagliate qua e là per tutte le 524 pagine del romanzo. E non sono solo studiose come Eleonora Andretta a esserci «inciampate». Giusto pescando nel mucchio ed evitando quelle (più di cinque) che abbiamo già segnalato: a pagina 54 fa la sua comparsa il «tavolino da notte», quello che in italiano si chiama comodino; a pagina 121 si legge «mentre cercava di sciogliersi fra la gente...», ed è un calco dell’inglese melt into the crowd, ma in italiano si dice «mescolarsi alla folla» o «nascondersi tra la folla»; a pagina 353 è difficile non trovare strana l’espressione «tenne sospesa per aria una speranza»: ricorda tanto l’espressione idiomatica inglese hanging in the air, ma in italiano è utile solo per farsi fare un frego blu nel tema delle medie. Questo trascurando dei veri nonsense come «accettava con le sue semplici implicazioni feline le carezze sulla testa e sul collo» o «con la determinazione del Dio che nel suo deliquio sosteneva di essere» (la frase, Zingarelli alla mano, ha senso solo se al posto di deliquio si mette la parola delirio).
Insomma, Giorgio Faletti sembra aver scelto l’itanglish come sua «carta da visita» (così chiama, a pagg. 119, quello che nello Stivalone, normalmente, è il biglietto da visita ma che a New York è la «card»). E che questo susciti qualche dubbio in chi legge, tanto più nei traduttori, è cosa legittima. Non una lesa maestà che autorizzi Faletti a rivolgere verso Franca Cavagnoli (traduttrice di tre Nobel) espressioni come: «Il fatto che si traducano dei premi nobel a volte può essere fuorviante... Non credo che il barista di Del Piero nel tempo si sia convinto di saper tirare le punizioni...». Chi traduce un Nobel ne conosce la lingua, è persona che si occupa di letteratura, non uno che abbia servito il cappuccino al bar all’Accademia di Svezia (con tutto rispetto per chi fa il cappuccino a J.M. Coetzee).
Faletti poi ribadisce che il romanzo è tutta farina del suo sacco. È una excusatio non petita. Noi vogliamo solo sapere perché usi una farina così inutilmente americana. Tant’è che avevamo chiesto al suo agente di poterlo intervistare (stiamo ancora aspettando la risposta). Ma anche dopo una gigantesca articolessa sulla Stampa non è ancora chiara la profonda spinta artistica che giustifica frasi come «non girare attorno al cespuglio...» o «una ventina di grandi vi avrebbero fatto comodo...». Faletti si limita a dire «un autore, se vuol far girare la gente intorno al cespuglio, invece di fargli menare il can per l’aia, sia quantomeno libero di farlo». Vero, uno è anche libero di scrivere poesia in forma di fungo atomico (lo fece Gregory Corso) ma dovrebbe saper spiegare perché lo fa, come gli è venuta l’idea. E agli altri resta il diritto di pensare che il risultato è discutibile, o almeno strano. Anzi, più le risposte sono spocchiose ed evasive più il dubbio, magari, cresce. Solo alla scherzosa, carosonesca, domanda, «Tu vuo’ fa l’americano...

sient’a me chi t’o fa fà?», posta il cinque agosto dal Giornale, Faletti ha risposto in modo chiaro: «Dodici milioni di copie vendute in Italia possono essere considerate un motivo esauriente?». Cosa possiamo dire? Sì, dodici milioni di copie «fanno fa’» un sacco di cose, non necessariamente tutte belle o corrette. Noi questo a Faletti non volevamo dirlo, ma in pratica se l’è detto da solo.

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