La fine del sogno americano

Il libro dietro il successo di Chloé Zhao, Nomadland, è un'inchiesta sulle fragilità del sistema americano. Ecco la verità sul popolo errante per lavoro

La fine del sogno americano

Empire, Nevada. A cercarla su Google Maps la bandiera rossa si posa lungo la Highway 447, nel bel mezzo del deserto Black Rock. Se poi con lo zoom si continua a ingrandire, si finisce in una cava bianca a pochi metri dalla quale corrono quattro file di case, ordinatamente divise in due blocchi. Le vie sono stranamente vuote: lungo i marciapiedi non ci sono auto parcheggiate e le fotografie satellitari non catturano nemmeno un'anima viva. Questo perché nel 2010, in seguito alla bolla immobiliare che ha travolto gli Stati Uniti nel 2006, la United States Gypsum, la società che produce il cartongesso Sheetrock, ha chiuso i battenti. "Non solo non avete più un lavoro, non avete più neanche una casa", ha detto Mike Spihlman quando, in un freddo dicembre, ha dovuto comunicare agli operai e alle loro famiglie la decisione della società. Per gli abitanti di Empire è così iniziato un vero e proprio esodo. In cerca di un nuovo posto dove stare. In cerca del modo migliore per sopravvire all'America.

"I workamper sono moderni viaggiatori mobili che accettano lavori temporanei in giro per l'America in cambio di un posto per roulotte gratuito - generalmente con allacci all'energia elettrica, l'acqua e le fognature - e magari uno stipendio". Dietro il successo dell'ultimo film della regista Chloé Zhao, Nomadland, vincitore di tre premi Oscar (miglior film, migliore regia e miglior attrice protagonista, Frances McDormand) e due Golden Globe (miglior film drammatico e miglior regista), c'è un'inchiesta costata tre lunghi anni (e oltre 15mila miglia al volante). Un lavoro accurato che ha permesso alla giornalista Jessica Bruder di svelare a tutto il mondo la fine del sogno americano. Il libro, che nel 2017 ha vinto il Discover Award e l'anno scorso è arrivato in Italia grazie alla casa editrice Clichy, spiega quello che le percentuali (bassissime) sulla disoccupazione a stelle e strisce non dicono. Questi numeri non raccontano, per esempio, le storie di tutte quelle persone che, dopo aver lavorato una vita intera, si ritrovano a dover fare i conti con una pensione da fame e ad optare per una soluzione drastica: ridurre il proprio spazio vitale a un van, in cui si aggirano ricurvi perché non hanno lo spazio nemmeno per stare in piedi, e girare gli Stati Uniti, dal confine messicano a quello canadese, in cerca di lavori saltuari, pagati anche meno di dieci dollari l'ora (straordinari esclusi). Lavori usuranti che dovrebbero essere svolti da chi è in perfetta forma fisica e non da chi avrebbe tutto il diritto di concedere alla propria vecchiaia il meritato riposo.

Libro Nomadland

"Si potrebbe pensare che sia un fenomeno moderno, ma noi workamper discendiamo da una tradizione antichissima", racconta Don nel libro. "Abbiamo seguito le legioni romane, affilando spade e riparando armature. Abbiamo vagato nelle nuove città americane, aggiustando orologi e macchine, riparando utensili da cucina, costruendo muri di pietra per tre centesimi al metro e tutto il sidro che riuscivamo a bere. Abbiamo seguito la migrazione a Ovest nei nostri carri coperti, con i nostri attrezzi e la nostra maestria, affilando coltelli, riparando qualsiasi cosa fosse rotta, aiutando a spianare la terra, costruire i tetti delle capanne, arare i campi e conservare il raccolto in cambio di un pasto e qualche spicciolo, spostandoci poi al lavoro successivo". Oggi, invece, i nuovi "nomadi" sono per lo più pensionati e nella stra grande maggioranza bianchi. Nella sua inchiesta la Bruder accompagna il lettore lungo le strade dell'America e lo mette a tu per tu con storie che di qua dall'Atlantico non arrivano mai. "Ambulanti, vagabondi, lavoratori stagionali e anime inquiete ci sono sempre stati - spiega la giornalista nel libro - ma adesso, nel secondo millennio, un nuovo tipo di tribù errante sta emergendo". Gli americani li chiamano "senzatetto", ma loro preferiscono definirsi "senza casa". La differenza è sostanziale. "Da lontano - si legge ancora - molti di loro potrebbero essere scambiati per spensierati camperisti in pensione". Ma non è così. Il boom del mercato immobiliare, legato alla stagnazione degli stipendi, li ha obbligati a fare una scelta che non avrebbero mai pensato di poter fare: rinunciare alle quattro mura domestica. Arrivarci dopo i sessanta, però, è devastante. E mette in luce le fragilità di un sistema che non regala più sogni.

Una scena del film Nomadland

Bob e Anita Apperley incarnano l'esempio di questo fallimento. Il crollo del mercato immobiliare li ha messi in ginocchio. Fantasmi come loro, la Bruder ne ha incontrati ovunque in Nevada, Kansas e Kentucky. Alcuni, spiega nel libro, "avevano visto i propri risparmi spazzati via da investimenti sbagliati o i loro piani pensionistici evaporare nel crollo del mercato nel 2008", altri invece "non erano riusciti a creare reti di sicurezza abbastanza solidale da affrontare traumi altrimenti superabili", come un divorzio, una malattia o un infortunio. Altri ancora, infine, erano stati semplicemente licenziati oppure "possedevano piccole attività commerciali che erano fallite durante la recessione". Eppure, nonostante le avversità della vita, nessuno di loro è disposto a rinunciare. "C'è speranza sulla strada", spiega la giornalista. "È un effetto collaterale dello slancio in avanti.

Un senso di possibilità, vasto quanto il Paese. Una convinzione radicata nel profondo che qualcosa di meglio arriverà". Prima o poi, ma arriverà. Magari nella prossima città in cui si fermeranno per cercare, ancora una volta, un lavoro.

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